Lc. 13, 1-9  anno C –III Quaresima
Nel suo discorso (cap. 12), Gesù, ci invitava alla vigilanza e, nel vangelo di oggi, ci invita alla conversione. Mentre parlava, alcuni (sconosciuta la loro identità) si avvicinano a lui per comunicargli la notizia di cronaca, riguardo la strade ordinata da Pilato che aveva fatto uccidere dei pellegrini provenienti dalla Galilea. Costoro, forse, sono stati uccisi mentre salivano verso il Tempio o mentre offrivano sacrifici per chiedere a Dio aiuto e protezione.
Era ancora viva nella memoria un’altra disgrazia: quella di diciotto persone rimaste sepolte dal crollo della torre di Siloe. Non esistono fonti storiche che testimoniano queste due notizie di cronaca.
Secondo la mentalità di quel tempo (mentalità ancora presente in noi oggigiorno. Facilmente si sentono queste lamentele: “Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?”, “Perché Dio mi ha mandato questa croce?, “Se Dio è buono, perché non mi evita questa malattia?, “Vado sempre in Chiesa e prego ogni giorno, eppure non mi ascolta, anzi mi capitano tanti problemi”) le vittime coinvolte in una disgrazia avevano ricevuto un castigo per i loro peccati commessi. Se c’è un castigo ci dev’essere una colpa. In altre parole, Dio, in qualche modo, giustiziava i peccatori. Quindi, coloro che non erano stati coinvolti o colpiti da una disgrazia o sventura, non erano affatto colpevoli, si consideravano persone giuste, si sentivano sicure di continuare la propria vita come erano abituati a fare prima, non bisognose di conversione.
Gesù rifiuta la connessione tra peccato e castigo, esclude che la morte di quei Galilei o di quelle persone sepolte dalla torre, sia una punizione. Le vicende, disgrazie, incidenti, malattie della vita non esprimono il castigo di Dio. Esiste invece una connessione tra il male che commettiamo e le conseguenze che soffrono gli altri; tra il bene che facciamo e la benedizione che ne scaturisce per gli altri.
Se fosse vero che per causa dei propri peccati molte persone sono morte improvvisamente o sono state coinvolte in qualche disgrazia, chi di noi può affermare che ha commesso peccati più leggeri rispetto a loro che sono morti? Chi di noi può dire allora che non gli succederà niente?
Gesù invita a leggere i due episodi (come pure le altre disgrazie) come un segno per capire quanto precaria e fragile è la vita. La morte è il segno della nostra provvisorietà, che dovrebbe spingerci a vivere con intensità e responsabilità ogni giorno: non sappiamo oggi cosa accadrà domani.
Per questo che Gesù ripete due volte: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Parole pronunciate per salvare, non per punire.
Ma c’è chi pensa: “Dio è paziente, c’è sempre tempo per cambiare”. È vero che Dio è paziente, ma non possiamo programmare la sua pazienza. Ogni giorno che viviamo in più è segno della misericordia di Dio, ma non indica l’assenza del suo giudizio. Dobbiamo approfittare della vita non per giustificare il rimando o evitare la conversione.
La parabola che Gesù racconta, parla di un fico piantato in una vigna. La vite e il fico, rappresentano   nella Bibbia il popolo d’Israele, che avrebbe dovuto produrre frutti.  Ma a cosa serve un fico se non dà frutti? Occupa il terreno che potrebbe essere usato per un’altra pianta. Solo l’intercessione del vignaiolo può evitare che il fico venga tagliato per il momento.
Gesù è l’inviato del Padre per cercare e raccogliere i frutti dal fico che non trova, (infatti se la prende non con la vigna, ma con il fico che rappresenta l’operare di Israele), attraverso i tre anni del suo ministero.
Sebbene Gesù trova solo fogliame (belle parole, intenzioni, cerimonie…), supplica il Padre di attendere ancora una anno, di avere pazienza: è l’ultimo tentativo di salvezza. Stiamo vivendo un tempo di grazia e di misericordia per rendere possibile il cambiamento, non per rinviarlo. Stiamo sperimentando la pazienza di Dio, che è infinita, ma noi non viviamo eternamente. La morte, che ci può raggiungere improvvisamente, ci invita a prendere delle decisioni, senza sprecare tempo. È davvero una grazia che il fico così sterile venga concessa una ancora una possibilità.
Forse noi stiamo vivendo i tempi supplementari. Il Signore non s’arrende e ci dà ancora una possibilità. Ma fino a quando?

Approfondimento
Limone 20 marzo 2022 – Quaresima 3/c
Ancora un invito alla conversione da parte di Gesù che prende spunto dal fatto che alcuni gli raccontano che Pilato ha sparso il sangue di Giudei proprio mentre offrono a Dio i loro sacrifici. Gesù, per nulla turbato, rincara la dose e richiama l’incidente di una torre che crolla addosso a 18 persone. Quindi mette in discussione il nostro modo di pensare e quindi di interpretare i fatti della vita o le circostanze storiche. Non pensate che chi muore tragicamente sia peccatore o colpevole più di altri, che cioè non pensate che nei fatti della vita c’è un “giudizio” di Dio. Nei fatti della vita c’è un’opera, un’azione, potremmo dire un continuo lavoro da parte di Dio che cerca di rendere ogni cosa e in particolare ogni vita fruttuosa piuttosto che sterile. Per questo, nel Vangelo Gesù racconta una parabola in cui un padrone esigente si lascia “convertire” alla pazienza da uno strano operaio, preoccupato più del frutto di un albero non suo che della propria fatica e del proprio salario. Con essa Gesù ci ricorda che dandoci tempo, Dio ci dona la sua grazia. Le circostanze della vita che ci piombano addosso improvvisamente, allora non sono una lezione per quelli che le subiscono. Esse possono invece servire da ammonimento per chi le osserva proprio perché possono richiamarci ad una verità profonda: che il tempo è grazia. Ogni istante è grazia e quindi può essere vissuto per convertirsi, per farsi accoglienti all’opera di Dio nella nostra vita. Oppure può essere disprezzato, sprecato, trascurato, o semplicemente vissuto per noi stessi come se noi potessimo concludere qualcosa senza l’aiuto di Dio. In tal senso il pensiero della morte non è un pensiero morboso ma salvifico perché se ad ogni istante posso morire, ogni istante è importante per viverlo bene, perché sia fruttuoso cioè corrispondente alla volontà di Dio per noi che è quella di entrare in relazione con Lui, vivere da figli, vivere come creature amanti. Quello che spesso succede invece è che viviamo la vita per estremi: o super-indaffarati, sempre di fretta, come se tutto dipendesse da noi; oppure annoiati, assonnati, pigri, come se il tempo non fosse prezioso. Oppure viviamo dispersi in mille voglie da soddisfare – lo sballo, le esperienze eccezionali, le vacanze speciali, vivere allegri e spensierati – o al contrario sempre lamentosi, mormoratori, scontenti. In ogni caso inconsapevoli del fatto che Dio vorrebbe fare un’opera meravigliosa con noi come l’ha fatta con Abramo, con Isacco, con Giacobbe. Se non ci convertiamo, se non accogliamo tutto, anche la nostra morte, come un dono di Dio moriremo tutti allo stesso modo: scontenti, ribelli, inconsapevoli. Per questo Paolo si richiama all’esperienza negativa degli israeliti nel deserto rivolgendosi non proprio ai deboli o a quelli che lottano per andare avanti ma a “quelli che credono di stare in piedi da soli”. Gli israeliti periti nel deserto non sono periti perché deboli o perché non aiutati. Tutti sono passati per il mar Rosso come Mosè. Eppure, son vissuti inconsapevoli o dimentichi del fatto che accanto a loro vi era una presenza amorevole che non desiderava altro che sostenerli. La bevanda, il cibo la roccia spirituale che li sosteneva era lo stesso Cristo che oggi risorto accompagna il nostro vivere. Una presenza vera ed efficace ma non misurabile secondo quelle aspettative umane che tendono sempre a tirare la volontà di Dio alla nostra perché possiamo mettercelo in tasca. La conversione è l’invito a rispondere all’opera che Dio fa nella nostra vita accogliendo ogni istante della vita con la stessa “cura” e attenzione che Dio ha per essa affinché essa diventi fruttuosa. Non c’è niente da buttar via della nostra vita, nemmeno un istante, se quell’istante lo viviamo col desiderio che porti frutti di vita eterna. Cosa era la vita di Mose dopo la fuga dai fasti d’Egitto? Perduto in un angolo di deserto, pascolava il gregge di un altro. Eppure, Dio lo ha cercato. Anche Mose, tuttavia ha dovuto convertirsi, togliersi le scarpe per rendersi conto del fatto che laddove metteva i piedi non era uno spazio anonimo, ma il luogo di una presenza. E la prima missione che gli viene affidata è quella di riportare alla consapevolezza del popolo il fatto che esiste un Dio che si prende cura della vita di tutti e che non dimentica nessuno. Chiunque si prende cura della vita ad ogni istante – foss’anche una madre che addormenta il suo bambino – non fa meno di ciò che ha fatto Mosè rispondendo all’invito di Dio. Missione è anche questo: accogliere, custodire la vita e viverla con la consapevolezza che non stiamo in piedi da soli ma collaboriamo ad un disegno di amore più forte della morte.