15 giugno 2025 – Solennità della Trinità
Nel salmo responsoriale ritroviamo la preghiera di un uomo che alza lo sguardo per contemplare il creato e invece di stupirsi di Dio si stupisce di sé stesso. Chi è l’uomo perché di lui ti ricordi? Di gloria e di onore lo è incoronato. Ricordare nella scrittura significa conservare la profondità e la vitalità di una relazione. Ricordare, in un certo senso, significa mantenere una comunione di vita. La preghiera del salmista allora mette in luce il fatto che esiste un legame privilegiato tra la natura di Dio e la natura dell’uomo, rispetto a tutte le altre creature e che interrogarsi su chi è Dio e sul suo mistero significa interrogarsi su chi è l’uomo e sul mistero che ci abita. Ma possiamo conoscere Dio “dall’interno”, profondamente, quasi come una persona potrebbe conoscere la vita intima di un’altra?
Il libro della Sapienza suggerisce proprio questo. Dio ha creato il mondo con sapienza, i cieli come le zolle della terra, ed ha manifestato nella creazione qualcosa della sua natura intima che è più profonda degli abissi dell’oceano e più alta dei monti. Ma è con la creatura umana, continua il libro della sapienza, che Dio coltiva una relazione specialissima deliziandosi in loro e giocando con loro. Paragonare lo spazio di Dio allo spazio del gioco significa fondamentalmente evidenziare che Dio non è mai solitudine ma comunione e che il suo modo di relazionarsi, in sé stesso e con noi, è caratterizzato dalla gioia, dalla libertà e dalla gratuità. Viceversa, forse mai le relazioni umane riflettono qualcosa del mistero della trinità, come quando esse si esprimono nella festa e nel gioco.
L’uomo non è fatto per vivere da solo e nemmeno per dominare gli altri ma per creare legami di comunione nella libertà e nella gratuità. Ciò che noi sperimentiamo come peccato, dunque, è sempre anche una violazione della comunione tra di noi e quindi una ferita nel rapporto con Dio. Le divisioni, gli egoismi, le dispute e le guerre di ogni tipo distruggono l’immagine di Dio in noi e quindi diminuiscono la nostra dignità, il valore della nostra persona, il mistero di gloria che costituisce la nostra natura profonda. Nessuno potrebbe ritrovare la relazione con un Dio di comunione a partire dall’isolamento in cui il peccato lo imprigiona.
È solo per Cristo, ricorda San Paolo, che ritroviamo la pace con Dio ed abbiamo un accesso alla sua grazia e quindi alla promessa di essere rivestiti della sua gloria. Avere accesso alla grazia di Dio significa conoscerlo dall’interno e quindi partecipare alla sua natura relazionale e comunionale in maniera tale che la nostra interiorità rispecchi quella di Dio. Per questo Gesù nel Vangelo ricorda che a differenza delle altre creature il nostro cuore, la nostra mente e le nostre forze sono fatte per accogliere in sé tutta intera la verità, per portare il peso di tutta la verità. Il peso di questa verità è appunto la gloria di Dio, che in ebraico si traduce “il peso di Dio”.
La dimenticanza di Dio, al contrario, la separazione da Dio e quindi il peccato che ne consegue avrebbero distrutto questa possibilità originaria. Il dono che Gesù fa della sua vita la riapre. Per la sua morte e resurrezione, ricorda Gesù nel vangelo, lo Spirito Santo viene a noi donato come un accompagnatore, cioè come colui che, senza forzare, indica il cammino e restituisce poco alla volta all’uomo tutta la sua dignità e la sua gloria. Come infatti la gloria del padre consiste nel far passare la sua vita e tutto ciò che gli appartiene al figlio nella sua umanità, così la gloria del figlio, ricorda Gesù nel Vangelo, consiste nel far passare la sua vita a noi e alla nostra umanità per mezzo dello Spirito Santo. Quello che i discepoli avevano udito dall’esterno adesso lo Spirito ce lo annuncia, ricorda Gesù, dall’interno e ci accompagnerà facendo concorrer al nostro bene ogni cosa, inclusa la tribolazione. Laddove soffriamo, infatti, dice San Paolo, si produce un’energia che opera in noi, una forza che l’apostolo chiama perseveranza, il coraggio, cioè di rimanere nella propria storia dando fiducia a Dio prima ancora che a sé stessi. La perseveranza poi produce la virtù provata, cioè, rende affidabile la persona che ha saputo rimanere nella tribolazione senza cercare scappatoie. Questa affidabilità, questa fede ferma, è veramente tutto ciò che ci serve, conclude San Paolo, per aprirci alla speranza certa, la speranza, cioè, che non delude, e che consiste nella partecipazione alla gloria di Dio e quindi alla comunione della Trinità.