Ricevere lo Spirito Santo, paradossalmente, significa sperimentare la vita prima di morire (José Tolentino). È vero che a noi sembra di avere già la vita, ma questo dipende dal fatto che l’unica vita che conosciamo è quella che abbiamo. Solo per il dono dello Spirito Santo cominciamo ad accorgerci, come scrive San Paolo, che il corpo è morto a causa del peccato, che cioè viviamo una vita morta perché disconnessa dalla vita divina. E per lo stesso dono dello Spirito Santo diventiamo consapevoli che vi è un’altra vita, libera dal peccato, che viene dallo Spirito Santo ed e’ un dono del Padre. Allora cominciamo a gridare: “Abbà”. A gridare perché misuriamo la distanza tra la nostra vita e quella del Padre e quando si è distanti occorre gridare. Ma il grido è anche una speranza. Noi eravamo debitori della carne, spiega San Paolo, e non avremmo mai potuto pagare abbastanza per colmare il debito e conservare la vita. Ora però il nostro debito, cioè la nostra morte, è stato acquistato da Cristo, il quale, congiungendo la natura umana a quella divina, fa passare a noi lo Spirito Santo e trasferisce il debito dalla carne allo Spirito stesso.
Ma mentre il debito verso la carne era quello dello schiavo ed il sentimento che lo accompagnava era quello della paura, il debito verso lo Spirito Santo è quello del figlio ed il sentimento che lo accompagna è quello della fiducia. Per lo spirito noi gridiamo Abbà. Esso non ci si chiede di essere capaci di chissà che cosa ma di rimanere fedeli. Di non smettere mai di cercare la comunione col padre e quindi di non smettere mai di gridare. Se ogni giorno, per lunghi anni, pur inciampando nelle stesse cose, pur ritrovandosi debole, incoerente, fragile e quindi lontano ancora dal padre, uno continuasse a gridare, ogni giorno può ritrovare la sua adozione filiale. La sua vita, allora, viene gradualmente assunta da colui al quale ormai appartiene, da Gesù Cristo, immagine del padre, donatore dello Spirito Santo.
All’esterno la vita dei figli di Dio rimane quella di tutti gli altri uomini. Eppure, a partire dall’evento di Pentecoste, qualcosa di nuovo accade. La vita divina, espressa dal fuoco, dal vento possente e dal forte rumore, invade la casa degli uomini. A partire da quel giorno ciascuno può udire le grandi opere di Dio nella propria lingua, anzi nel proprio dialetto. Ciascuno può cominciare, cioè, ad avere una relazione personalissima con Dio, e questo permette a Dio di realizzare qualcosa di grande nella vita anche modestissima di ciascuno. Non si tratta di un cambio improvviso o di un miracolo impressionante. Molti testimoni della Pentecoste, al contrario, pensavano che i discepoli fossero ubriachi.
Disprezzavano l’idea che Dio potesse raggiungerli attraverso la testimonianza di uomini la cui vita a loro sembrava mediocre o almeno uguale a quella di tutti gli altri. Eppure, la Pentecoste annuncia questo grande miracolo: Dio per sé distante, inconoscibile, invisibile, irraggiungibile si comunica a noi nel nostro limite, parla il nostro dialetto, si manifesta come il paraclito, cioè come colui che ci sta vicino e che, se noi ci allontaniamo, rimane comunque pronto a rispondere al nostro grido. Il mondo-continua Gesù-non può ricevere questo dono perché non lo vede, perché non riesce a muovere lo sguardo oltre l’evidenza sensibile. Voi lo conoscete. Non perché lo vedete ma perché egli sta presso di voi.
Cioè, perché fate esperienza di una vicinanza che prelude ad una comunione totale. Egli è presso di voi, conclude Gesù, e un giorno sarà in voi. Gesù sta annunciando un processo di graduale interiorizzazione dello Spirito Santo per il quale la vita di Dio alla fine riempie ciascuno come riempiva il cenacolo. Se poi lo Spirito dimora in noi egli darà la vita anche ai nostri corpi mortali, cioè a quella dimensione esteriore che sulla terra noi percepiamo come mortale. Il grido dello Spirito Santo, allora, è anche una sana tensione di crescita. Il corpo, dopo il peccato, porta in se uno spirito senza vita e quindi obbedisce alla legge del peccato che porta verso la morte.
Adesso, però, il corpo riconosce in se stesso un appello ad una libertà più grande e trova in sé, per la fede in Gesù, la forza di seguire il comandamento di amore che Gesù ci ha lasciato, fino al punto di far morire le opere della carne. Se uno mi ama conserva la mia parola, dira Gesù. La conserva anche se si percepisce distante. Con pazienza ricomincia ogni giorno. Custodisce nel cuore non una pretesa di riuscita – devo farcela, devo cambiare, devo essere migliore – ma un grido, un’attesa, la fiducia che di fronte ad ogni mio tentativo fallimentare rimane lo sguardo di un padre e non di un giudice. E dalla sincerità del tentativo dipende la verità della crescita. Alla fine, quel corpo che su questa terra racchiudeva lo spirito e inevitabilmente lo soffocava, si ritrova esso stesso contenuto nello spirito e quindi riportato alla sua gloria originale che non è quella di essere un corpo mortale ma un corpo vivente. Corpo risuscitato. Corpo spirituale. Corpo che vive di amore.