Gv.2,1-11 Nozze di Cana II° Dom. anno C
Nella vecchia liturgia, nel giorno dell’Epifania, si celebrava insieme tre manifestazioni di Gesù: Magi, Battesimo e Nozze di Cana. L’attuale liturgia ha scandito i tre eventi in altrettante domeniche.
A Cana, Gesù ha realizzato il primo dei segni, per indicare che tutto ciò che compirà in parole ed opere durante la sua attività pubblica, manifesterà la sua identità, il volto del Padre, affinché i suoi discepoli di allora e di oggi credano in Lui.
Siamo in un contesto di nozze, (Cana significa “acquistato, creato”: allusione al popolo acquistato, creato da Dio, con il quale aveva stabilito una alleanza) che simbolizza l’alleanza del Sinai, in cui “c’era la madre di Gesù”, mentre Gesù non ne fa parte perché è solo “invitato” con i suoi discepoli. L’“ora” della nuova alleanza, a cui appartiene Gesù e i suoi discepoli, che si realizzerà sulla croce, non è ancora arrivata.
Nella Bibbia, la relazione tra Dio e il suo popolo è rappresentata come un matrimonio: Dio era lo sposo e il popolo la sposa (immagine usata anche dai profeti). Nel rito matrimoniale, il momento culminante era quando i due sposi bevevano il vino dallo stesso calice: il vino era simbolo dell’amore. Ma senza vino era impossibile celebrare l’alleanza, perché manca l’amore, la festa, la gioia, la vita.
È la “madre di Gesù” (non viene mai nominata con il suo nome), che rappresenta il resto d’Israele fedele e in attesa della realizzazione delle promesse messianiche, che si accorge: “Non hanno più vino” (non dice “Non abbiamo vino”). La sua constatazione, non rivolta agli sposi (la sposa è completamente assente e lo sposo è citato una sola volta), ne ai responsabili del banchetto, evidenzia la situazione  del popolo abbandonato a sé stesso, senza più alleanza, senza lo sposo, senza amore. Allora lei chiedi a Gesù di intervenire in questa situazione imbarazzante, perché è Lui il Messia-sposo.
Gesù, rispondendo a sua madre, la chiama “donna” (stesso titolo alla Samaritana e alla donna adultera), che non è ancora giunta la sua “ora”, ma gli fa capire che la salvezza non è lontana.
Quindi la madre di Gesù invita i servi a mettersi a disposizione di lui: “Qualunque cosa vi dica” (cfr. Gn.41,55: Giuseppe in Egitto; Es.19,8: consegna della Torah). Lei svolge, verso i servi, lo stesso ministero di Mosè come mediatore dell’alleanza (Es.19,5-8) e allo stesso tempo mostra di essere aperta e fiduciosa alla novità di suo Figlio, generando la fede negli altri.
In questa festa nunziale non è il pane o l’olio che mancano o il necessario per la vita, ma il vino, indispensabile solo nelle feste, quindi un di più. La mancanza di vino, simbolo dell’amore, è l’esperienza che constatiamo: le case senza festa, amori inariditi degli sposi senza gioia e comprensione, una fede stanca, monotona e senza slancio.
Gesù ordina di riempire le sei (il n° 6 indica imperfezione, incompiutezza) giare “di pietra” (evoca le due tavole della Legge), necessarie per la purificazione. Ciascuna delle giare poteva contenere dagli 80 a 120 litri di acqua: ma erano vuote, quindi indicano che l’antica alleanza era finita, cioè si era ridotta a semplici gesti o riti esteriori che non cambiavano il cuore delle persone, la vita. Simboleggiano una religiosità arida, secca, sterile, inefficiente, senza amore. Una religione basata sul dovere, sull’obbligo che non facilita il rapporto con Dio. Mentre con l’antica alleanza, l’uomo/donna doveva meritarsi l’amore di Dio, con la nuova alleanza è offerto gratuitamente a tutti: si deve solo accoglierlo.
A Cana non succede nulla di eccezionale, se non un intervento per rimediare un disagio durante una festa nunziale, ma ritenuto per Gesù di fondamentale importanza al punto di dare inizio alla sua attività pubblica. E lo fa offrendo abbondanza di vino buono, che è quasi uno spreco inaudito, un sovrappiù di amore (Gv.12: Maria a Betania rompe il vasetto di nardo per esprimere il suo amore) e di dono di Dio che ama l’uomo/donna in eccesso.
Il responsabile del banchetto (architriclino) fa elogio del buon vino allo sposo, ma il lettore sa che esso è dono di Gesù. L’architriclino rappresenta il Sommo sacerdote e i capi del popolo che avrebbero dovuto accorgersi della mancanza di vino e intervenire, invece fanno festa. Il popolo (la madre) avverte il problema, i capi sono ciechi.
Così le nozze di Cana sono diventate il nuovo Sinai dove si manifesta la gloria di Dio, il volto del Padre, in modo particolare sulla Croce.
L’Eucarestia a cui partecipiamo è la nostra Cana, dove il vino viene mutato in sangue e il pane nel corpo di Cristo, segni della nuova alleanza, che dovrebbero darci la possibilità di essere anche noi segni visibile di gioia, di festa nella realtà che viviamo. Purtroppo non sono poche le comunità cristiane, oggi, dove manca il vino, perché si annacqua il Vangelo, cioè si pensa di vivere la fede attraverso la tradizione, le norme e riti esteriori, che non danno vita e non producono cambiamenti.

Approfondimento
Questo primo miracolo di Gesù alle nozze di Cana può sembrare quasi una banalità. Che importanza può avere la mancanza di vino in un banchetto rispetto ai mille problemi che affliggono l’umanità. Eppure, Giovanni definisce questo avvenimento come “il principio” di tutti gli altri segni che Gesù compirà in seguito. Non semplicemente il “primo” dei segni ma propriamente il principio, cioè la genesi, la fonte di un nuovo modo di agire e di farsi presente da parte di Dio nella realtà umana. A Cana, i discepoli di Gesù – dice Giovanni – videro la sua gloria. Quella gloria che normalmente abitava il tempio come luogo sacro ora si fa presente in un frammento di vita di un villaggio di Galilea. A partire da Cana la realtà comincia a rivelarsi come “gloriosa”, cioè come una realtà che non si esaurisce in sé stessa, ma porta con sé tutto il “mistero” di Dio. Isaia direbbe che essa è sposata. Come l’innamoramento è la scoperta che nella propria vita individuale si fa presente un’altra persona, così la fede matura è la scoperta nella propria vita e in tutta la realtà si fa presente “un Altro”, che ama con amore sponsale, con un amore cioè che genera comunione e fecondità e che si oppone alla desolazione ed all’abbandono. Dio non è un’ipotesi da discutere. È all’origine – dice San Paolo – di ogni espressione di amore, di ogni attività, di ogni servizio perché è Dio che opera tutto in tutti. Il modo con cui Dio interagisce con ciascuno di noi è simile a quello della comunione sponsale. Dio interagisce continuamente con noi non come uno che impone o determina ma come uno che ha a cuore la tua felicita e quella di tutti. Anche di quelli che – come a Cana – non sanno da dove viene il vino buono. Eppure, più facciamo memoria e acquistiamo consapevolezza di questa comunione sponsale con Dio in tutto ciò che viviamo, più la nostra vita e tutta la realtà diventano gloriose, capaci cioè di trasfigurare ogni tristezza, ciò che Isaia chiama desolazione e abbandono.  “Ecco, viene il tuo Signore, dice Isaia, e ti fa sua dandoti un nome nuovo. Non sei più desolata e abbandonata ma sposata.” La desolazione esprime la natura originariamente individualistica del cuore umano che rinchiude sempre più la persona nella sua solitudine. L’abbandono esprime la mancanza di generatività che inevitabilmente caratterizza la vita di chi scommette tutto sul successo e la realizzazione di progetti umani dimenticando di coltivare invece la comunione e il dono di sé. Nessuno può uscire da solo da questa solitudine e da questa desolazione che adombrano ogni nostra esperienza. La constatazione di Maria a Cana: “non hanno più vino” ricorda come ogni gioia umana porta con sé una sorta di delusione e di inganno: non dura e anche se sembra inebriarti per un tempo, alla fine sarà sempre seguita da un vino meno buono. Dio ci sposa, cioè si unisce a noi nel nostro vivere quotidiano per insegnarci che, anche se non tutto è facile e comodo, tutto può esser vissuto insieme a Lui in maniera tale da condurre ad una felicita finale che supera in qualità e quantità ogni nostra umana immaginazione. Per sperimentare questo passaggio dal vuoto alla pienezza, espresso dall’immagine delle giare vuote colmate di vino, occorre vincere quella distrazione irragionevole che ci porta a vivere le cose di ogni giorno come se le vivessimo nella nostra solitudine e non come persone unite ad uno sposo così fedele da potersi a lui affidare in maniera incondizionata: fate qualsiasi cosa vi dirà. Considera la giornata di oggi: era piena o vuota. In altre parole: vivevi con Lui o senza di Lui? Egli è lì, nella nostra vita, seduto a tavola con noi, attende solo che ce ne accorgiamo. Nel racconto di Cana sono due i protagonisti “meno distratti”: Maria ed i servi. Maria interviene discretamente laddove il capotavola che aveva il dovere di vigilare è rimasto totalmente inconsapevole. Maria non dimentica mai che la realtà è abitata da una presenza e per questo il suo agire non esprime agitazione o protagonismo ma fiducia e abbandono e quella particolare sensibilità che nasce dallo Spirito Santo che porta “ad avere a cuore la felicita degli altri”. Non è necessario pensare che Maria sia corsa subito da Gesù. Probabilmente ha prima considerato ogni possibile soluzione, ha assolto ogni sua responsabilità e solo alla fine va da suo figlio. Gesù, dal canto suo non fa uscire il vino da un cappello di prestigiatore ma richiama i servi ad un’obbedienza paziente, responsabile che essi assolvono diligentemente. Riempire le giare fino all’orlo significa fare le cose di ogni giorno, non solo per lo stretto necessario a cui possono servire, ma anche per il significato di amore che esse possono esprimere. Più uno accoglie la sfida di obbedire alla realtà nel senso di perseverare nel proprio compito con fiducia ostinata, esprimendo dedizione, considerazione per gli altri e amore, più uno diventa consapevole che la vitalità che lo abita non è solo sua ma viene da un altro che vive in lui: è che Dio opera tutto in tutti.