Mc. 10, 35-45  Dom. XXX anno B
Per la terza volta (la liturgia di oggi non lo riposta), Gesù annuncia ai suoi discepoli, durante il cammino verso Gerusalemme, ciò che gli sarebbe successo; verrà giudicato, condannato, ucciso e poi risorgerà. Ancora una volta i suoi discepoli dimostrano la fatica a cambiare testa, mentalità. Sono disposti a seguire il Maestro, con l’obbiettivo di vincere, di trionfare, primeggiare sugli altri.
Infatti i figli di Zebedeo (in Matteo sarà la madre dei due fratelli) espongono una richiesta che provocherà il primo scisma nella Chiesa: due contro dieci a causa dei primi posti, per avere potere. Gesù aveva costituito i Dodici affinché fossero il segno di una società nuova in cui fosse abolita ogni pretesa di dominio e si praticasse un’unica ambizione: il servizio (Armellini).
Purtroppo, la mentalità del mondo, cioè il dominare, accaparrare , far carriera, prevalere sugli altri si è infiltrata anche nella Chiesa, fin dall’inizio.
I due fratelli chiedono di sedersi uno alla destra e l’altro alla sinistra di Gesù quando sarà nella “gloria” del Regno di Dio (che genere di aspettative avevano su Gesù? Che idea avevano del Regno di Dio?).
Anche noi spesso rivolgiamo a Gesù delle richieste che non vengono esaudite perché sono l’opposto della logica di Dio: “Voi non sapete ciò che domandate”.
Gesù non ha mai accettato l’idea di diventare un Messia potente, forte, vincitore che gli Ebrei si aspettavano e desideravano. Nell’episodio delle tentazioni nel deserto, Gesù rifiuta uno stile di vita miracolistico, poderoso e prestigioso che Satana gli proponeva per salvare gli uomini. Preferisce invece obbedire al Padre, fidarsi di Lui, anche andando contro i propri interessi e la sua stessa vita. Gesù preferisce assumere lo stile del servo sofferente secondo la profezia di Isaia (I° lett.), che si offre per la salvezza di molti: “il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità”. Lui stesso si metterà a lavare i piedi ai suoi.
Gesù non si irrita di fronte a questa assurda richiesta, che manifesta apertamente una resistenza a capire   le sue parole, ma approfitta per indicare quelle condizioni che permettono di raggiungere la Gloria, condividendo il suo stesso destino: “Potere bere il calice che io bevo o essere battezzati nel battesimo in cui io sono stato battezzato?”. Essi pensano di poterlo fare, ma sappiamo che dopo pochi giorni, quando Gesù inizierà la sua passione, insieme agli altri discepoli, si disperderanno e fuggiranno: non sono ancora pronti a soffrire con Gesù. Il calice e il battesimo (simbolo di sofferenza, dolore e morte) i due discepoli lo berranno, poi, nel loro martirio.
Sebbene non spetta a Gesù stabilire il posto alla sua destra o sinistra, quando verrà crocifisso si trova in mezzo a due malfattori, nostri fratelli nella comune miseria, fragilità e peccato.
Ascoltando la richiesta dei due fratelli, gli altri 10 discepoli si sdegnarono, perché avevano la stessa ambizione: avere potere, successo, autorità, essere qualcuno importante nel gruppo. Allora Gesù chiarisce la concezione cristiana del potere e dell’autorità: non dev’essere esercitata allo stile dei governanti della nazioni, dei ricchi e potenti di questo mondo, che dispoticamente dominano: “Fra voi però non è così”. E propone due figure che sono agli antipodi: il servo e lo schiavo.
Ci fa capire che il potere o l’autorità sono strumenti di servizio, come lo ha vissuto Gesù: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (il riscatto era il prezzo che si pagava per liberare qualcuno dalla schiavitù. Dio, tramite suo Figlio, se mette al servizio dell’umanità per liberarla da tutto ciò che limita la sua dignità)
Alla luce di questo vangelo, dopo secoli, dovrebbe essere più facile per noi capire e vivere questo messaggio, nella nostra vita quotidiana come nelle nostre comunità/Chiese. Purtroppo sperimentiamo in noi ancora un’inclinazione a primeggiare sugli altri, dare sempre la colpa agli altri per fare noi bella figura, a farla franca in qualsiasi sgradevole situazione, a considerarci i migliori, a cercare di padroneggiare. Il potere non basta mai a se stesso: quando conquista il cuore, diventa un idolo e prende il posto di Dio (Luigi Accattoli). Per Gesù, il “primato” spetta allo schiavo, cioè a colui che non si appartiene, che è dell’altro (Mt.16,24: “rinnegare se stessi”). È una logica contraria al nostro DNA profondo, perché servire implica il prezzo della rinuncia di sé.
Tagore: “Sognavo che la vita fosse gioia. Mi sono svegliato. La vita era servizio. Ho servito e nel servizio ho trovato la gioia”. M. Teresa di Calcutta: “Dove c’è Dio, lì vi è amore. E dove c’è l’amore, vi è sempre servizio. Il frutto del servizio è la pace”. Amare vuol dire servire l’altro, invece egoismo significa servirsi dell’altro.
Concludo con un testo conosciuto di don Tonino Bello, che ci aiuta certamente a riflette e a chiederci come stiamo praticando il nostro “servizio” per gli altri.: “La Chiesa del grembiule è il ritratto più bello della Chiesa, quello del servizio. La Chiesa che si piega davanti al mondo, in ginocchio: che diventa povera; povera di potere. Pauper (povero) in latino non si oppone a dives (ricco), si oppone a potens (potente). Perché il grembiule è l’unico paramento sacerdotale registrato nel Vangelo, per la Messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì santo, non parla di casule, né di amitti, né di stole, né di piviali… Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi”.