Mc. 9,30-3  Dom. XXV Anno B
Domenica scorsa abbiamo lasciato Gesù in terra pagana, a Cesarea di Filippo, dove si era scontrato con Pietro, il quale prima lo aveva riconosciuto come Messia e poi ha tentato di distoglierlo dal cammino della sofferenza  e della croce. Allora Gesù lo aveva paragonato a Satana.
Poi Gesù si reca in Galilea e da lì incomincia il suo lungo viaggio verso Gerusalemme, accompagnato solo dai suoi discepoli. Durante questo percorso, Gesù cerca di formare e preparare i suoi discepoli all’evento della croce. Così, per la seconda volta, annuncia loro la sua passione e morte e Risurrezione. Successivamente lo farà per la terza volta.
Gli diceva: “Il Figlio dell’Uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno”.
Tutta la passione di Gesù gira intorno al verbo “CONSEGNARE”. Giuda consegna Gesù ai soldati; i soldati lo consegnano ai capi del popolo; questi a Pilato e Pilato lo consegna ai crocifissori. Ma in realtà è Dio Padre che consegna suo Figlio nelle mani degli uomini, come espressione del suo amore e vicinanza agli uomini. Quindi Dio è colui che si mette nelle nostre mani: “prendete e mangiate, questo è il mio corpo dato per voi”.
Quando Gesù parla ai suoi discepoli del suo destino e passione ricorre sempre a dei testi della Scrittura. Conosceva la vicenda di Elia, che aveva lottato contro l’idolatria ed era stato perseguitato; conosceva anche quella di Geremia, esiliato e morto dimenticato in Egitto, e quella di Isaia rifiutato dalla gente.  Conosceva pure il destino del “giusto” messo alla prova e perseguitato, affinché il suo comportamento non desse fastidio ai potenti, ai tiranni ed agli empi. Il testo della 1° lettura si applica facilmente a Gesù. La sua morte non è stato un incidente di percorso, ma è stato ucciso perché il suo modo di vivere e il suo messaggio davano fastidio.
I discepoli non comprendono le sue parole, fanno ancora fatica ad accettare un Messia che debba soffrire e vivere un tragico destino, un Messia diverso da quello immaginato. È la tentazione di farsi “un dio su misura” e a propria immagine.
Hanno perfino timore di chiedere spiegazioni. Il loro silenzio, manifesta la distanza che si era creata tra loro e Gesù. Mentre discutevano fra loro, si sono perfino dimenticati di guardare a colui che seguivano.
Ma giunti a Cafarnao, Gesù chiede: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. I discepoli che avevano lasciato tutto per seguire Gesù (casa, padre, barche e reti), per strada, avevano discusso chi fosse tra loro il più importante, il più “grande”, chi sarebbe diventato il leader del gruppo, dopo la morte del maestro. La lotta di successine era iniziata.
Mentre Gesù parlava del Messia sofferente, loro discutevano di supremazia, di potere e di autorità. É più facile lasciare delle cose, ma è più difficile abbandonare una mentalità di predominio e potere. Possiamo immaginare la rivalità, la disunione, l’invidia che regnava fra loro.  Ecco il motivo della loro incomprensione di fronte alle parole di Gesù. Due mentalità diverse nel concepire la propria missione. Noi non siamo il “posto” che occupiamo e che spesso lo cerchiamo per essere ammirati, accettati, apprezzati, valorizzati dagli altri, sentirci più importanti.
Allora Gesù disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”.
Per Gesù il “primo” è colui che gli è vicino, gli assomiglia: “sono venuto per servire e non per essere servito”. Questo è l’atteggiamento che Gesù inculca ai suoi discepoli come prima regola del vivere comunitario. Ogni comunità che perde il senso della sua vocazione di servizio (diaconia), termina in divisioni, discussioni e problematiche interne.
L’ambizione del potere è un cancro onnipresente in qualsiasi luogo di lavoro, di spazio sociale, politico, economico ed ecclesiale. Penso che tutti soffriamo la tentazione del dominio,  come dice il proverbio: “È  meglio essere testa di topo, che coda di leone” o come si legge nel Don Chischotte: “A tutti piace comandare, anche solo su una manciata di pecore”.
L’ambizione del potere è la fonte di tutti i mali sociali e comunitari. Alcune famose firme commerciali affermano: “Siamo al suo servizio; la nostra specialità è il servizio” oppure nella propaganda politica ed elettorale i candidati facilmente dicono: “Noi vogliamo servire il popolo”.  Di fatto è molto redditizio coniugare il verbo SERVIRE, perché dopo, per questi servizi, si passa la fattura, in denaro o in potere.
San Giacomo, nella 2° lettura, afferma che l’ambizione del potere, del denaro, del prestigio sono la causa dei conflitti e delle guerre tra gli uomini: “Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra”.
Enorme doveva essere la distanza e l’incomprensione tra i discepoli e Gesù: Gesù cerca di discendere   fra gli uomini, i discepoli di ascendere; Gesù vuole servire, i discepoli vogliono comandare o dominare; Gesù si presenta come il Servo sofferente, i discepoli discutono di carriera.
Non si va dietro a Gesù per il potere e neanche per il premio, ma per cercare di servire Dio e l’uomo, come ha fatto Lui. Possiamo svolgere tanti “servizi” senza amare, ma non possiamo amare senza servire.
Allora Gesù prese un bambino e lo mise in mezzo a loro: ecco il centro della Chiesa, il primo di tutti, non tanto per ricordarci la semplicità, l’innocenza e l’umiltà, ma per ricordarci che il servizio che dobbiamo realizzare nelle nostre comunità deve essere rivolto ai più deboli, a coloro che non valgono, agli indigenti, ammalati, anziani e agli esclusi ed emarginati.
Al tempo di Gesù, il bambino per la sua statura ed età non poteva partecipare alla guerra, alla politica e alla vita religiosa, doveva dipendere dagli altri ed era considerato una nullità. È la stessa condizione di molti bambini in alcuni Paesi del Sud del mondo che sono maltrattati, abusati, sfruttati, abbandonati sulle strade e devono arrangiarsi a vivere, non valgono e non contano niente.
Quindi nella comunità non si deve mettere al centro le proprie ambizioni, ma le persone più trascurate e deboli. Accogliere queste persone, significa accogliere Dio stesso, perché Gesù si identifica con loro. Chi accoglie uno di questi bambini nel suo nome, non fa un dono, ma riceve in dono Cristo Gesù e colui che lo ha inviato. Dio è presente lì dove i discepoli potrebbero pensare di incontrare solo incompletezza, limite e inutilità (come nel bambino, così anche nella sofferenza e nella morte del Messia).
Una frase sintetizza questo vangelo: “Quien no sirve, no sirve para nada” (Chi non serve, non serve a nulla).

Approfondimento
Il Vangelo di questa domenica accosta due immagini apparentemente distanti tra loro: quella di Gesù che predice la croce e il rifiuto che lo attende e quella di Gesù che poco dopo abbraccia un bambino ed invita ad accogliere la grazia del vangelo con spensierata semplicità. Non vi è un accostamento che esprima in modo migliore il paradosso della vita cristiana. Quest’ultima, infatti, da un lato significa saper accogliere la realtà e la verità senza sconti, anche nella loro asprezza e durezza. Dall’altro essa chiama ad esprimere la tenerezza dell’amore a partire dalle circostanze più banali. La vita cristiana è allora seria ed esigente, perché include l’invito ad abbracciare la croce, ed al contempo semplice e accessibile perché tutti, se vogliono, possono abbracciare un bambino. Vi è un solo modo per comprendere ed accogliere questo paradosso nella nostra vita quotidiana: entrare in una logica di umiltà. Solo l’umiltà, infatti, è capace di educare l’affettività umana in modo che questa possa apprendere ad amare con tenerezza e con forza allo stesso tempo. Ma è proprio qui la vera difficolta. La natura umana tende a considerare l’umiltà una debolezza e l’affermazione di sé una forza. L’ostilità descritta nel libro della sapienza verso il giusto e la sua mitezza esprime il disprezzo o l’indifferenza che ancora oggi si incontrano in chi pensa che la vita sia farsi da sé e che “l’aiuto di Dio” sia fondamentalmente inutile se non un disturbo. Ma questo non riguarda solo gli atei o gli indifferenti. Anche gli apostoli nel Vangelo di oggi erano così soddisfatti della loro vita e così sicuri delle loro capacità da mettersi a litigare per chi fosse il più grande. Il discorso alternativo che Gesù faceva li spaventava al punto da trattenerli dal porre domande. Anche loro, come tutti, avrebbero voluto che il Vangelo fosse così “umano” al punto da non costare più nulla. Anche Giacomo nella seconda lettura deve richiamare i primi cristiani al fatto che, pur credendo di seguire il loro maestro, in realtà vivono le loro interazioni in modo molto “umano” e quindi carnale e orgoglioso: gelosie, contese, invidie … fino al punto di “uccidere”. Probabilmente non erano ancora arrivati a spargere il sangue del prossimo in senso letterale. Giacomo sta mettendo in luce il fatto che le loro interazioni sono caratterizzate da mille atteggiamenti che feriscono e tendono a prevaricare sulla vita dell’altro e che quindi sono esattamente all’opposto della logica della croce che invece tende a donare la vita e a promuovere l’altro. Può davvero accogliere un bambino e dargli vita chi non è capace di accogliere la croce? Ma questa capacità non è solo il frutto di buona volontà. Giacomo fa notare ai suoi fratelli che non ottengono perché’ non chiedono. Proprio come i discepoli avevano smesso di fare domanda a Gesù per paura, così essi hanno smesso di pregare forse per pigrizia o scoraggiamento. La vita cristiana dipende dall’accogliere una grazia che espande la natura umana e questa grazia bisogna chiederla ogni giorno perché viene dall’alto. Si tratta – continua San Giacomo – di una sapienza pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia, senza parzialità, quindi capace di accoglienza verso tutti, anche i più piccoli, e senza ipocrisia, quindi assolutamente sincera e semplice. Non otteniamo queste cose perché non le chiediamo e non le chiediamo perché pensiamo che ci sono altre cose più importante che magari sembrano promuovere il nostro io ma in realtà lo lasciano nella sua radicale incapacità di amare e di lasciarsi amare, di donare ma anche di accogliere. Dio è sempre molto vicino a noi in quanto donandoci tutto ciò che ci dona nella realtà egli dona sempre anche qualcosa di sé stesso. Chi nella realtà accoglie un bambino – conclude il Vangelo di oggi – in effetti accoglie di più di quel che appare; accoglie Gesù e accogliendo Gesù accoglie Dio che illumina, salva, rallegra, espande la nostra vita e la nostra persona. È la nostra arrogante autosufficienza che ci acceca e ci rende non recettivi: occorre impegnarsi non a diventare grandi ma a ridiventare piccoli nel senso più immediato del termine: persone umili. L’umiltà rende poi capaci di accogliere la vita così come essa è, con lo stupore di chi non crede di saper già tutto, con la gratitudine di chi sa di non aver fatto tutto da solo, con la liberta di chi non sente il bisogno di misurarsi perché si sente graziato.