Gv.6.41-51 XIX anno B
Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi” (1Re,19,3). Inizia cosi la fuga del profeta che si trova in una situazione quasi disperata. Aveva lottato contro l’idolatria del popolo e la corruzione dei poderosi. Dio stesso gli aveva affidato questa missione, affinché il popolo non perdesse la fede. Gezabele, l’onnipotente regina fenicia, moglie del re Acab, lo ha minacciato di morte, perché aveva sgozzato i 450 sacerdoti del dio Baal, che lei adorava. Per evitare il peggio, si dà alla fuga nel deserto, che si trasforma in un camminare disorientato, senza una meta precisa.
Con l’apparizione dell’angelo e il pane del cielo con cui si alimenta, la fuga iniziale e il vagare smarrito, si trasformano in un autentico pellegrinaggio verso l’Oreb, verso il luogo della fonte della fede pura.
Sull’Oreb, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe iniziò a rivelarsi. È il luogo delle confidenze tra Mosè e Yahveh (Es.33,18-34  e dove si concluse l’alleanza (Es. 19-24). Mosè ed Elia sono tanto relazionati con questo monte, che poi saranno presenti anche sul monte della Trasfigurazione.
Il viaggio di Elia è un simbolo dell’esistenza umana, che passa tra una serie di alti e bassi, e che si riflette negli atteggiamenti e sentimenti del profeta: paura, noia, fame, disperazione, senso di colpa, impotenza e incapacità nel svolgere la missione affidatagli. Fortificato dal pane del cielo, quel suo camminare fiducioso e deciso, lo porta verso il monte dove Dio gli si rivelerà.
Dio non sottrae alla prova il suo profeta, non lo solleva dalla fatica, non lo dispensa dal duro  viaggio. Il deserto deve essere attraversato e le difficoltà affrontate. Gli offre l’alimento necessario e questo basta. “con la forza datagli da quel cibo, Elia camminò per 40 giorni e 20 notti fino al monte di Dio, l’Oreb”.
La vicenda di Elia è la nostra. Ci sono momenti in cui ci sentiamo, come il profeta, intimamente delusi e non troviamo conforto neppure in Dio, nella fede, nei fratelli della comunità. Conflitti, incoerenze, pettegolezzi, critiche, invidie, meschinità sono motivi di abbattimento, inquietudine e, a volte, persino di disperazione.
Dio non si dimentica di noi, è sempre al nostro fianco, ci accompagna come ha fatto con Elia. Non ci esenta dal lavoro, non si sostituisce a noi; quando siamo stanchi non ci carica sulle spalle, ma ci indica il cammino da percorrere e non ci lascia mancare il pane che ridona vigore.
Domenica scorsa, Gesù ha dichiarato: “Io sono il pane della vita”. Di fronte a questa pretesa, i Giudei (cioè le autorità religiose) iniziano a mormorare tra loro. Essi sono convinti di avere già il pane che sazia, cioè la Torah, la Legge (Sir.15,3). Quindi non hanno bisogno di altro pane e non sono disposti ad accettare un uomo che si propone come “pane di vita”.
Inoltre per loro è inconcepibile che Dio si riveli tramite un uomo debole e fragile, in un figlio di falegname, i cui genitori son ben conosciuti. Non riescono a conciliare la condizione umana di Gesù con la sua affermazione di essere il pane disceso dal cielo.  Alle obbiezioni, Gesù risponde di essere l’inviato e il rivelatore di Dio: è in Dio e da Dio è disceso come pane di vita per l’uomo.
È possibile conciliare l’origine umana e divina di Gesù solo con la fede, che il Padre concede. Nessuno può andare da Gesù, se non è “attirato” dal Padre. Dio non attira nessuno con la forza, ma attraverso le Scritture. Tutti possono essere attirati dal Padre a Gesù, se sono disposti ad ascoltarlo per essere “istruiti da Dio”.
Ma i Giudei mormoravano. Tale mormorazione evoca quella del popolo di Israele nel deserto, ed è sinonimo del non voler credere. La mormorazione è un ostacolo per essere “attirati” da Dio verso Gesù. I Giudei, mormorando, non ascoltano Gesù presente in mezzo a loro, che è la Parola di Dio incarnata, fattasi uomo. Solo chi è capace di ascoltare Dio, sa accogliere Gesù. E chi crede in Gesù, come uomo e Dio, ha la vita eterna. Ma credere non significa aderire a una verità, non è un assenso intellettuale, ma assimilare il suo messaggio, giocarsi la vita come Lui per il Regno di Dio, condividere la stessa vita di Dio, amante dell’uomo.
Chi crede “ha” la vita eterna, non “avrà”. La vita eterna non è un premio che si ottiene nel futuro per l’accumulo di meriti o per una buona condotta da godere nell’aldilà, ma è una condizione di vita che già ora possiamo sperimentare e che ha una qualità capace di andare oltre la morte.
Quindi il “pane” da mangiare è un modo di vivere seguendo il Vangelo, è il dono di sé, della compassione, della condivisione verso gli altri e che da senso alle nostre giornate.
Non pensiamo subito al pane eucaristico (ne parleremo domenica prossima). L’alimento che dona forza e infonde coraggio è la Parola di Dio, il messaggio di Gesù che gli uomini sono invitati ad assimilare, come pane. “L’uomo non vive solo di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt.8,3). Quindi è una Parola che va mangiata.
Il popolo nel deserto ha mangiato la manna, un cibo che garantiva la sussistenza temporanea e tutti sono morti: nessuno è entrato nella terra promessa. Secondo il libro di Giosuè e de Numeri, sono morti perché non hanno voluto ascoltare la voce di Dio.
Nessuno è costretto a mangiare questo pane. Ne mangia chi ha cura della propria fame, chi non si basta, chi continua a cercare. L’alternativa è la mormorazione, come fanno i Giudei: hanno davanti il pane della vita, ma non vogliono cibarsi perché hanno smesso di cercare, di mettersi in discussione, di accogliere “il pane disceso dal cielo” che è Gesù stesso e che da la vita eterna, in quanto ci mette in comunione con il Padre e con i nostri fratelli.