Mc.6,7-13  XV anno B
Nell’anno 921 a.C. la Terra promessa si divide in due regni: regno del Nord o Israele (10 tribù con capitale Samaria e il santuario di Betel) e il regno del sud o di Giuda (2 tribù con il Tempio di Gerusalemme).
Israele sotto il governo di Geroboamo II (VIII sec. a.C.) viveva un periodo di prosperità e tranquillità politica ed economica, come all’epoca di Salomone. I ricchi erano i più privilegiati a scapito dei poveri, dei deboli ed indifesi. Infatti opprimevano e sfruttavano (Am 4,1), ricorrevano a imbrogli legalizzati, falsificavano le bilance, fissavano i prezzi dei prodotti (Am 8,5) e vendevano il povero per un paio di sandali (Am 8,6).
Religiosamente, il re stipendiava i sacerdoti e sosteneva le spese del Tempio di Betel. Ma era tutto apparenza ed esteriorità. Il re aveva alle sue dipendenze sacerdoti e falsi profeti supinamente docili per difendersi da ogni intrusione, per giustificare il suo operato ingiusto, davanti alla gente e davanti a  Dio.
Un giorno, dal Sud, arriva a Betel, il profeta Amos e scaglia invettive contro il re, attacca la pratica religiosa e tutto il sistema sociale, politico ed economico che generava disuguaglianze scandalose e ingiuste. La sua presenza dava fastidio ad Amasia, sacerdote di Betel, che prima lo denuncia al re e poi lo affronta direttamente per allontanarlo dal territorio.
Dopo il periodo di Elia ed Eliseo,  la vita comune dei profeti degnerò e molti vi partecipavano per assicurarsi un “modus vivendi”. Così “figlio di profeta” divenne un’espressione offensiva e sinonimo di fannullone.
Allora Amos chiarisce che è stato chiamato ed inviato da Dio, sebbene prima svolgeva una vita agiata con il suo lavoro. Quindi non cerca di guadagnarsi la vita ne di fare carriera, per cui non ha niente da perdere. Non cerca neppure di adattare o modificare la Parola di Dio. Solo compie la sua missione di profeta, cioè portavoce di Dio.   Senza la sua parola il popolo è cieco; senza il suo popolo il profeta è muto; senza il profeta Dio è assente, ma senza Dio il profeta è un disastro perché annuncia se stesso.
Amos ha saputo rispondere alla chiamata di Dio, ha saputo annunciare la Parola di Dio con un atteggiamento libero nei confronti dei poteri umani, senza interessi e secondi fini, con responsabilità e dedizione totale. È un profeta al servizio non de potenti di turno, ma della Parola.
Gesù vorrebbe che anche i suoi discepoli avessero queste qualità quando li invia in missione. Prima di mandare i Dodici a predicare, si è lungamente dedicato a condividere con loro la sua vita. Il discepolo che ha imparato a vivere con il Maestro, impara anche ad agire come Lui.
Questo brano evangelico è il vademecum del discepolo-missionario e tutti i discepoli-missionari di ogni tempo dovrebbero tenerlo ben presente nel loro cuore prima di partire.  Ricevute le istruzioni, i Dodici si mettono in cammino. La missione è itinerante, non sedentaria. Tutti sono inviati, nessuno è esento: ciò indica che l’annuncio del vangelo non è incombenza riservata ad alcuni membri della comunità. Il discepolo che non sente il bisogno di condividere con altri il dono ricevuto, probabilmente non è ancora convinto che Cristo sia un tesoro prezioso per la sua vita.
Marco non precisa dove vanno ne quanto dura il viaggio, ma li invia a “due a due”, per indicare che la missione non è un fatto privato o personale, bensì comunitario. La missione viene svolta insieme, per superare la tentazione dell’individualismo e protagonismo. Non si va per annunciare un’opinione personale o una scoperta, ma Cristo.
Gesù invia i Dodici ad andare ad annunciare il Vangelo non nelle sinagoghe, ma nelle case o negli ambienti dove vive la gente (non devono aspettare che qualcuno li cerchi), Gli ebrei, in viaggio, chiedevano di essere ospitati soltanto nelle case di altri ebrei osservanti, per essere sicuri delle regole rituali del puro e impuro. Gesù chiede ai suoi discepoli di essere liberi da ogni tabù e superstizioni e accogliere l’ospitalità offerta da chiunque. Conferisce loro il “potere”, non di comandare o dominare, ma di sconfiggere “gli spiriti immondi”, cioè tutte quelle forze negative che minacciano l’uomo, dentro e attorno a sé, allontanandolo da Dio e dalla vita e che suscitano sentimenti di oppressione, violenza e ingiustizia. È lo stesso potere di Dio: amare, vincere il male col bene allo stile di Gesù.
L’equipaggiamento dei mandati è ridotto all’essenziale: l’importante è il messaggio, la logica dell’amore e non le qualità della persona che annuncia o i suoi mezzi. Gesù li manda a predicare il Vangelo, non a guadagnare denaro, perché sarebbe un mal negozio. Lo spirito di povertà non significa non avere cose materiali o vivere nella miseria. Una Chiesa che va cercando eccessivi mezzi per stabilirsi col pretesto dell’utilità e dell’efficacia di questi mezzi, è una Chiesa che si è indebolita nella sua fede. La povertà è una condizione per amare. Finché abbiamo cose, daremo delle cose; quando non avremo più nulla da dare, cominceremo a dare noi stessi. Amare non è dare qualcosa, ma è dare se stesso: Dio ci ha dato la sua vita, non le sue cose.
Quindi un equipaggiamento leggero: un bastone, i sandali e una sola tunica: tutto il resto è un bagaglio che appesantisce,
Il bastone. Ci ricorda Mosè che ha liberato il popolo dall’oppressione del faraone, ha diviso il mar Rosso (Es.14,16), ha fatto scaturire l’acqua dalla roccia (Es,17,5) servendosi di un bastone, segno della potenza di Dio. I discepoli per liberare l’uomo dagli “spiriti impuri” hanno in mano un bastone, cioè la Parola e la fede. Poi il legno del bastone ci ricorda anche il legno della croce, che ci invita a donare la propria vita ai fratelli come ha fatto Gesù.
I sandali. Ci ricordano Mosè davanti al roveto ardente che si è tolto i sandali (davanti a Dio non si deve avere pretensioni e sicurezze), il cammino percorso da Israele nel deserto guidato da Dio per raggiungere la Terra Promessa. I sandali venivano calzati dagli uomini liberi, mentre gli schiavi andavano a piedi nudi: siamo invitati a liberarci da certi pesanti fardelli come usi, abitudini, pratiche devozionali legate a un preciso contesto storico e culturale, spesso equiparati al Vangelo; liberarci dai nostri pregiudizi, egoismi, paure, invidie…
L’inviato non deve prendere con sé pane, bisaccia e denaro perché deve imparare a porre la fiducia nella Provvidenze e nell’accoglienza della gente.

Questo brano è incastonato tra due episodi di rifiuto: quello subito da Gesù nella “sua patria” a causa delle sue origini umili e ben conosciute e quello della morte di Giovanni Battista da parte di Erode.
Quindi insieme al successo ci può essere anche il rifiuto o l’insuccesso in missione. Può avvenire per mancanza di solidarietà (“non vi accoglieranno”) o per mancanza di dialogo (“non vi ascolteranno”). È la stessa reazione dei Giudei verso coloro che non appartenevano alla loro religione e nazione.
Di fronte a una risposta negativa, i discepoli devono scuotere la polvere dai loro calzari “come testimonianza per loro” (non “contro” di loro). Non è un gesto di disprezzo, ma un invito ad aiutare coloro che non hanno voluto accogliere la Parola ad assumere la propria responsabilità. Era un gesto tipico degli Ebrei, rientrando in terra d’Israele, scuotere la polvere dai calzari dopo calpestato terra pagana. In questo  modo, Gesù sta cambiando l’idea di “pagano”. Per la religione il pagano è colui che crede in altre divinità, per Gesù è colui che è incapace di accogliere, di ospitare, di condividere, di relazionarsi.

Questo brano è certamente la carta d’identità di ogni discepolo di Cristo. In esso, Gesù non offre istruzioni dettagliate, ma sottolinea tutto ciò che occorre essere, e non quello che bisogna fare o dire. È un invito a essere testimonianza attraverso la coerenza tra ciò che diciamo e come viviamo. La povertà richiesta da Gesù è per evitare il “lievito” dei Farisei, per vincere la brama dell’apparire, dell’avere e del potere. È un essere contrapposto all’avere. È la condizione per amare davvero e condividere la vita con gli altri. È lo svuotamento del superfluo per rivelare Dio in noi.