Gv. 3, 14-21 IV Quaresima B
Il Vangelo di questa domenica ci offre la conclusione del dialogo di Gesù con Nicodemo, un fariseo, capo dei giudei e membro del Sinedrio. Era rimasto colpito dal gesto provocatorio e profetico di Gesù (cacciata dei mercanti) nel Tempio. Di notte visita Gesù per capire meglio le sue intenzioni. È un uomo in cerca della verità, anche se sperimenta, come tutti noi, delle difficoltà ad accogliere il messaggio proposto da Gesù e rinunciare alle sue certezze e convinzioni religiose. In seguito, cercherà di difendere Gesù, prima che sia arrestato, contro il giudizio severo del Sinedrio (Gv 7,50) e dopo la morte, farà di tutto affinché Gesù abbia una degna sepoltura (Gv 19,39).
Precedentemente avevano dialogato sulla rinascita dall’alto tramite lo Spirito Santo, dono di Dio che l’uomo può accogliere o rifiutare. Sarà proprio il rifiuto dell’uomo a dare origine alla passione e morte di Gesù. Nicodemo trova difficoltà a comprendere che attraverso l’infame supplizio della crocifissione, Dio possa manifestare il suo amore per l’uomo. Per lui, come per ogni ebreo, la morte in croce significava fallimento, umiliazione, maledizione, abbandono di Dio.
Allora Gesù ricorre a un episodio biblico per dimostrare come la croce può diventare strumento di salvezza. Utilizza il verbo “innalzare” che non significa, come pensiamo noi oggi, salire, arrivare in alto, conquistare posti di potere, far carriera, ma fa riferimento alla croce. Sicuramente Nicodemo ha fatto ancora più fatica a capire il pensiero di Gesù.
Nel libro dei Numeri (cap.21) si racconta che il popolo d’Israele sta attraversando il deserto, ma stremato dalla fame, dalla sete, della stanchezza, incomincia a mormorare contro Dio e Mosè. Quindi il Signore manda serpenti velenosi nell’accampamento degli israeliti, provocando la morte di molti. Il popolo riconosce il proprio peccato e chiede a Mosè di intercedere presso Dio. Dio allora ordina a Mosè di innalzare su di un’asta un serpente di bronzo.
Quando qualcuno veniva morso da un serpente, guardando quello sull’asta, rimaneva in vita. Non era certamente una grande fatica guardare verso il serpente di bronzo, ma era necessario fare una scelta.
La lettura cristiana ha interpretato quel serpente di bronzo innalzato su un’asta, l’immagine di Gesù innalzato sulla croce. Come gli israeliti nel deserto, iniettati dal veleno dei serpenti, potevano salvarsi guardando in alto verso il serpente di bronzo innalzato, così ogni credente, guardando in alto verso Gesù sulla croce, può liberarsi dal veleno del peccato (ci sono serpenti fuori di noi che attaccano e ci procurano danno, ma anche serpenti dentro di noi che ci rovinano la vita: brama di potere, invidia, gelosia, odio, rancori, ipocrisia, vendetta…).
Gesù che era disceso dal cielo, ora dev’essere innalzato sulla croce. Tale innalzamento significa anche la sua “glorificazione”, che diventa  fonte di salvezza. Per i Farisei, la Legge dava vita e salvezza. Per Giovanni, invece, provengono dalla persona di Gesù innalzato. Quindi non è l’osservanza di minuziose prescrizioni (613 comandamenti) che da la vita, ma l’adesione al Figlio di Dio, espressione massima dell’amore del Padre. Inoltre i Farisei pensavano alla vita eterna come un premio futuro per la buona condotta nel presente. Per Gesù la vita eterna è un dono che riceviamo già ora, quaggiù sulla terra. Chiunque sa alzare il suo sguardo sul crocifisso “ha la vita eterna”, comprende chi è Gesù e soprattutto riceve la salvezza: “Dio non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”.
Giovanni, con il termine “mondo” vuole indicare tutta quella realtà negativa dell’uomo che lo allontana da Dio, che non da spazio a Dio: egoismo, violenza, oppressione, ingiustizia, corruzione, menzogna, peccato… Eppure “Dio ha tanto amato il mondo”, cioè il luogo del nostro esistere, della nostra storia, non perché è perfetto, senza difetti, ma perché solo l’amore è salvezza. Dio non aveva altro modo per salvare il mondo, al punto da donare suo Figlio unigenito.
1° Lettura: l’autore del testo, interpreta con gli occhi della fede, quegli avvenimenti che deportarono il popolo d’Israele in Babilonia come schiavo, nell’anno 587 a. C. Ci presenta il contrasto tra l’infedeltà del popolo (rompe l’Alleanza con Dio: “moltiplicarono le loro infedeltà”, contaminando con pratiche e culti pagani il Tempio) e la fedeltà di Dio. Inizialmente Dio permette la distruzione di Gerusalemme e del tempio, ma poi si pente e concede il suo amore e il suo perdono, attraverso il pagano Ciro, favorendo agli esuli il ritorno in patria. Questa testo ci fa capire che il peccato, per quanto sia grave non riesce a distruggere la fedeltà e l’amore di Dio per il suo popolo. Dio non abbandona mai il suo popolo, ma continua ad amarlo nonostante i suoi peccati.
La salvezza che ci viene da Gesù crocifisso, è un regalo di Dio che lui ci offre, senza che lo meritiamo: “Per grazia siete salvati” (II Lettura). Però questo dono di Dio possiamo accoglierlo o rifiutarlo: “Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede in lui è già stato condannato”. Chi rifiuta Gesù, lui stesso si condanna per il suo modo di agire: preferisce vivere nelle tenebre, fare il male. Quindi odia la luce, la verità, la giustizia, l’amore e il perdono. Chi rifiuta la luce e la vita ha fatto la propria scelta di morte.
Accogliere o rifiutare implica salvezza o condanna. Quindi è l’uomo stesso, tramite la sua scelta, che decide il suo destino eterno. La responsabilità ricade sull’uomo, non su Dio, che nel suo amore non fa eccezioni. Dio continua a tendergli la mano, a offrirgli la salvezza, mediante suo Figlio in croce.
Non sono le dottrine a separarci da Dio, ma i nostri comportamenti: chi danneggia l’uomo con il suo modo di operare, odia Gesù perché teme di essere scoperto, di mettere in luce la sua bassezza e malvagità. Scegliere di rimanere nella tenebra indica il voler continuare a fare il male. Non si può essere oppressori dell’uomo e prestate adesione a Gesù.
Troviamo un’opposizioni di termini in Giovanni, che occorre chiarire: “Chiunque fa il male, odia la luce… chi fa la verità viene verso la luce” (non dice “chi opera il bene”). Per noi la verità si dice, il bene si fa, mentre per Giovanni la verità si fa. Non significa osservare una dottrina, ma fare il bene. Giacomo: “La fede senza le opere è morta”(2,26). Essere veri conta di più che dire il vero. I Farisei che si erano seduti sulla cattedra di Mosè, dicono il vero, ma non sono capaci di essere veritieri, cioè fare opere di bene (dicono, ma non fanno). Quindi “fare” la verità esprime il nostro desiderio di avvicinarci alla luce, di uscire dalla tenebre fuori e dentro di noi, atteggiamento di chi non ha nulla da nascondere.
Siamo invitati a guardare Colui che è “innalzato” sulla croce, per sentirci figli amati dal Padre. San Daniele Comboni raccomandava ai suoi missionari: “tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”.
La salvezza diventa un gioco di sguardi.
                         

Autori consultati: Maggi, Armellini, Montana, Matteos-Barretos, Ronchi e altri