Mc. 1,40-45. VI anno B
Dopo aver guarito la suocera di Pietro, Gesù lascia Cafarnao e incomincia a percorrere la Galilea predicando la vicinanza del Regno di Dio, guarendo i malati e scacciando i demoni.
Marco, senza indicare nessuna coordinata di tempo e luogo, inserisce l’episodio del lebbroso, che cammina diritto verso Gesù, il quale non si scansa, non si allontana e nemmeno mostra paura. Anzi, si ferma e lo ascolta. Ai suoi piedi si inginocchia la condizione umana più disperata, più temibile, più sofferta e discriminata, rappresentata dal lebbroso, che chiede di essere purificato.
Per la Bibbia il termine “lebbra” indica un’ampia serie di affezioni cutanee e malattie della pelle (psoriasi, tigna, eruzioni, tumori, eczemi…). Era considerata un castigo di Dio, che puniva i peccati commessi dalla persona ammalata o dalla sua famiglia o dai propri antenati.

Essendo per il lebbroso vietate qualsiasi relazione, veniva colpito in tutte le sfere relazionali: fisica (il proprio corpo sfigurato), familiare (abbandonato), sociale (discriminato e allontanato da qualsiasi attività), psicologica (ritenuto peccatore e colpevolizzato), religiosa (escluso dal culto perché considerato impuro e riammesso solo se i sacerdoti lo ritenevano guarito). Tale esclusione relazionale era davvero una tragedia. Insomma, dato che per la Bibbia vita significa relazione, il lebbroso poteva essere considerato un morto vivente. Egli è “come uno a cui suo padre ha sputato in faccia” (Nm 12,14).
Oltre alla sofferenza causata dalla malattia, doveva sopportare la vergogna e il senso di colpa, perché il marchio della lebbra lo dichiarava pubblicamente peccatore, un impuro, punito da Dio.
Solo Dio poteva concedere la guarigione di un lebbroso (i sacerdoti semplicemente potevano dichiararlo “puro”, ma non “renderlo puro”) ed era equiparata alla risurrezione di un morto.

Se questa è la condizione del lebbroso secondo la Bibbia (le conseguenze di una concezione errata di Dio vengono vissute pesantemente dalle persone più deboli), è interessante vedere come si comporta Gesù davanti a un lebbroso.
Innanzitutto, mettiamoci nei panni di chi ha vissuto per anni una vita tranquilla, agiata, senza tanti problemi e, improvvisamente, si trova a vivere da emarginato, isolato, additato dalla gente come un “maledetto da Dio”, costretto a urlare “impuro, impuro” ogni volta che qualcuno si avvicina. Cosa faremmo al suo posto?
L’anonimo lebbroso del Vangelo è un uomo che ha voglia di vivere, non si autocommisera, non si piange addosso. Reagisce e infrange le regole dell’isolamento, rischiando la lapidazione, ma sa anche che Gesù non lo denuncerà.  Chiede con fede a Gesù: “Se vuoi, tu puoi purificarmi”, cioè essere messo in condizione di tornare nella comunità. Una supplica fatta a nome di tutti coloro che soffrono malattie, esclusioni, isolamenti: cosa vuole Dio da queste persone dolenti, cosa se ne fa delle loro lacrime e patimenti? Dio fa preferenze tra uomini/donne scartandoli dal suo amore o preferisce figli guariti? È proprio vero che Dio abbandona ed emargina coloro che la società e la religione considerano “impuri”?
Gesù si commuove, “tese la mano, lo toccò”. Non usa il potere della sua Parola per purificarlo, non agisce per delega, ma si espone al contagio delle nostre sofferenze, prendendole su di se. Anche Gesù disobbedisce alle norme religiose: chi tocca un impuro a sua volta si rende impuro. Infatti, dice Marco, che Gesù  “non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti”, sia perché il lebbroso non ha rispettato l’invito a “non dire niente a nessuno” e sia perché Gesù prende il posto di tutti coloro che gli uomini considerano “lebbrosi”, impuri, di scarto.
Gesù vede la sofferenza creata da un sistema sociale e religioso che genera barriere, esclusioni, divisioni e non può rimanere indifferente, perché sa che suo Padre, di fronte alla sofferenza degli uomini, non resta impassibile.
Per questo che aveva “ammonito severamente” il lebbroso perché credeva anche lui nell’assurdità che Dio rifiuta e castiga le persone.
Con il suo gesto, Gesù capovolge il concetto sbagliato di Dio, indica la sua missione tra gli uomini e annuncia la presenza del Regno di Dio tra noi. Soprattutto dichiara che Dio non esclude nessuno dal suo amore: davanti a Lui non ci sono “peccatori/impuri” o “santi”, ma figli che hanno bisogno di sentirsi amati.

Nel Vangelo di oggi, Gesù ci invita a testimoniare la nostra fede frutto dell’incontro con Gesù, come ha fatto il lebbroso guarito: ci invita ad abbattere qualsiasi barriera e indifferenza verso l’altro: ogni periodo della storia ha i suoi esclusi: l’altro ieri erano i tubercolosi, ieri i tossicodipendenti e sieropositivi, oggi gli immigrati, i rifugiati, i poveri, gli anziani, le persone sole, i separati, i divorziati risposati… insomma andare verso coloro che stanno portando la miseria del mondo come la croce di Cristo. Ogni comunità cristiana dovrebbe impegnarsi ad accogliere tutti, senza lasciar nessuno “fuori dell’accampamento”. Tutti noi abbiamo bisogno di uscire dall’isolamento.

Forse dovremmo prima inginocchiarci davanti a Gesù per chiedergli di “purificarci”, di guarirci per ricevere la sua grazia e così essere il segno visibile e il prolungamento della compassione e tenerezza di Dio per accogliere, senza se e senza ma, coloro che vivono una situazione di “rifiutati” dalla società dello scarto.
Forse dovremmo anche rivedere il nostro modo di celebrare l’Eucarestia. I Corinti facevano difficoltà a connettere il Sacramento dell’Eucarestia con la vita quotidiana (II lettura). Separavano la fede dalla vita. Una Eucarestia che non abbia delle ripercussioni nella nostra vita personale e sociale diventa una semplice formalità, un rito, un guscio vuoto.
Come reagiamo nei confronti di chi consideriamo diverso, straniero, socialmente disprezzato ed emarginato? Noi cristiani siamo in grado di contestare, come ha fatto Gesù, certe leggi che generano discriminazione tra gli uomini?

Autori consultati: Pagola, Armellini, Farinella, Nonato, Tondo, Maggi. Giorgi, Squizzato, e altri