Marco 1,-29-39 V anno B
Il libro di Giobbe, scritto dopo l’esilio di Babilonia, descrive la situazione esistenziale di Israele, il quale si sente confuso, disilluso, quasi ingannato da Dio che non mantiene le promesse fatte. Il ritorno in patria non è stato facile. La fede vacilla. È un momento tragico.
Il racconto parla di Giobbe, uomo ricco e felice, che viene colpito dalla sventura e perde figli, beni, e salute. Si riempie di piaghe che lo costringono a sedersi sulla cenere per trovare sollievo. Riflette sulla condizione dell’uomo: la vita è ricolma di dolore, di sacrifici e sofferenza. Si domanda: perché Dio mi ha fatto nascere se poi mi riserva disgrazie? Nel suo dramma e dolore, desidera morire per mettere fine alle sue fatiche: più corta è la vita, meno tribolazioni da affrontare. Ma non cade nella rassegnazione, continua a lottare e cercare la verità, e, nonostante tutto, a sperare in Dio.
Da questo libro emerge una domanda fondamentale: perché Israele ha dovuto soffrire l’esilio? Domanda che diventa la domanda di ogni uomo: perché l’uomo deve soffrire? Che senso ha soffrire? Di fronte alle sofferenze degli innocenti, alle violenze, alle guerre, alla miseria e povertà estreme, alle ingiustizie, alla morte, l’uomo si chiede: Dio dov’è? Perché non interviene, perché non fa qualcosa? Dio è veramente buono e giusto? Sono più o meno le stesse domande che si faceva Giobbe, circa 2.600 anni fa.

Vangelo. Uscito dalla sinagoga, Gesù si dirige alla casa di Simone. Gli dicono che sua suocera è a letto con la febbre, senza diagnosticare la malattia che soffre. Gesù si avvicina a lei, la solleva e, rimessasi in piedi, si mette a servire. Siamo ancora a Cafarnao, in giorno di sabato. In questo giorno era proibito compiere 1.521 azioni, tra le quali visitare o guarire gli ammalati. Gesù si confronta con il male, si avvicina a chi soffre. Non è venuto a darci spiegazioni teoriche riguardo le disgrazie, le malattie e le sofferenze, tanto meno per incolpare Dio o gli uomini per la presenza del male e della morte.
È il primo miracolo di Gesù, piuttosto insignificante: ci saremmo aspettati, all’inizio del vangelo, qualcosa di più eccezionale.
Eppure riassume il significato di tutti gli altri miracoli: Gesù ci ridona la capacità di amare e di servire e così assomigliare a Dio.

Quando si ha la febbre, ci sentiamo indisposti, non riusciamo a compiere le nostre attività quotidiane, preferiamo rimanere a letto, essere serviti e riveriti, servirsi degli altri. È la febbre del ripiegamento su noi stessi, dell’egoismo, del male che ci immobilizza e blocca la nostra capacità di amare. Si tratta della febbre narcisista, del denaro, del successo, della carriera, dell’attivismo, dell’autosufficienza, dell’apparenza, dell’indifferenza, dei pregiudizi, delle discriminazioni… che ogni tanto ci assale.
Gesù, avvicinandosi alla suocera di Simone, si avvicina a tutti i “Giobbe” afflitti dalla sofferenza e dalla malattia. Gesù non teme di sporcarsi le mani, di farsi carico di tutte queste nostre situazioni di dolore.
Non teme neppure di contaminarsi toccando quella donna ammalata, religiosamente impura. A quel tempo la donna, in una cultura prevalentemente maschilista, era considerata come una “serva” prima del padre, poi del marito e infine dei figli. Non poteva testimoniare in tribunale; in caso di danno il suo valore di risarcimento era dimezzato rispetto a quello dell’uomo; in caso di parto di una bambina, i tempi della purificazione della madre erano raddoppiati.
Gesù prendendole la mano, “la fece alzare”: un gesto fisico che nell’N.T. è usato per indicare la risurrezione di Gesù. La risuscitò da quella situazione di chiusura in se stessa, nella quale si era prostrata. Risanata, si mise subito a servire (diaconia), come fecero gli angeli, dopo le tentazioni, nel deserto (1,13): l’amore fa risorgere. Servire significa amare in concreto. L’incontro con il Signore ha cambiato la sua logica: da “tu cosa mi servi?” a “in cosa posso servirti?”.  Il lettore intuisce come Gesù, attraverso la guarigione di questa donna, stia indicando e insegnando l’atteggiamento che ogni discepolo deve incarnare per seguirlo, anche perché Gesù non è venuto per essere servito, ma per servire.
Venuta la sera” gli abitanti della città, liberi dall’obbligo del riposo sabbatico, portano gli ammalati e gli indemoniati a Gesù, che viene sommerso e circondato da un mare di dolore e di miseria. L’invocazione “ricordati…” di Giobbe rivolta a Dio affinché intervenga in favore di chi soffre, viene esaudita attraverso le guarigioni che Gesù effettua sui sofferenti, manifestando così la misericordia di Dio. Dio non rimane indifferente e impassibile al dolore dell’umanità.
Al mattino presto, Gesù si ritira, nel silenzio, in preghiera, non per sfuggire dalla realtà che lo circonda, ma per ricevere dal Padre la forza per affrontare le sofferenze di ogni uomo/donna. Pregare significa perdere tempo con chi si ama. Gesù non sottrae tempo agli altri, ma solo a sé stesso, al suo riposo (v.35:”quando ancora era buio”) per dedicarlo al Padre. “Più riceviamo nella preghiera, più possiamo dare nella vita attiva” (Madre Teresa di Calcutta), perché le nostre attività e la nostra vita con/per gli altri sarà un parlare di Lui.
Viene interrotto da Simone: “Tutti ti cercano”, ma con un motivo sbagliato: la gente affinché continuasse a compiere guarigioni e prodigi, mentre i discepoli per concretizzare i loro sogni di successo e popolarità. Non si riscontra una risposta di gratitudine e di fede. Gesù non si lascia manipolare e strumentalizzare: porterà il suo annuncio altrove. La sua è una missione senza frontiere e senza limiti. L’amore non crea dipendenze, non lega le persone a sé, ma lascia liberi.
Non è intenzione di Dio sostituire l’uomo: lo guida con la sua Parola, lo accompagna e gli sta vicino con la sua presenza, ma vuole che sia l’uomo ad agire e a combattere il male, mettendosi al servizio del prossimo. Nella chiesa primitiva il servizio indicava la solidarietà e vicinanza ai poveri e agli ammalati, ma anche l’annuncio del Vangelo: “Guai a me se non annuncio il Vangelo” (II lettura).
Due impegni importanti che i “malati” risanati da Cristo, dovrebbero compiere, perché un dono ricevuto non si può trattenerlo, ma si condivide e si comunica a tutti.

Autori consultati: Farinella, Armellini, Fausti, Bianchi, Stendaer, Camacho Castillo e altri.