Mc. 1,14-20     III domenica anno B

Nelle tre letture di oggi incontriamo delle “avvertenze” che sembrano come un specie di “conto alla rovescia”: “Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta”, minaccia Giona; Paolo avverte: “il tempo si è fatto breve”; e Gesù: “Il tempo è compiuto”. Sembra un invito urgente a impiegare meglio il tempo a nostra disposizione.

Conosciamo bene il racconto dell’ostinato profeta Giona, che incarna la mentalità chiusa e meschina del suo popolo. L’autore scrive questa storia verso la fine del IV sec. a.C. quando Israele, dopo l’esilio, era impegnato nella restaurazione sociale e religiosa, manifestando atteggiamenti di integralismo, di purezza razziale, d’intolleranza verso le nazioni pagane, di fanatismo e ripiegamento su se stesso.
Il racconto di Giona è ambientato a Ninive (città ormai ridotta a macerie da almeno 300 anni) e l’autore la immagina nella piena prosperità, ma anche colma di violenza. Gli israeliti ricordavano questa città sanguinaria con rabbia e rancore a causa delle deportazioni subite ed erano convinti che Dio, essendo giusto, devesse punirla, annientarla: desiderio che avrebbero voluto si realizzasse presto.
Giona viene mandato da Dio per invitare la città di Ninive alla conversione. Ma il profeta tenterà di tutto per non andarci: a lui non importa che i Niniviti vengano castigati dall’ira di Dio e che non si salvino. È geloso e invidioso che Dio possa essere misericordioso e buono con i peccatori, peggio ancora se sono pagani. Proclama un annuncio catastrofico, molto diverso da quello che il Signore gli aveva affidato: Dio non ha parlato di distruzione della città, ma che i suoi abitanti prendessero coscienza della loro vita malvagia.
Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta”. Giona non aveva calcolato l’imprevisto: la città non venne distrutta, e gli abitanti non hanno aspettato nemmeno il termine dei 40 giorni per convertirsi (certamente lo hanno fatto prima di Giona). Il profeta, malato di integralismo, preferiva essere portatore di un messaggio di maledizione più che di speranza, di sentenza più che di salvezza; non aveva capito che i 40 giorni erano il tempo che Dio aveva bisogno per compiere l’impossibile, sempre che l’uomo collaborasse.

Il tempo è compito e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel vangelo”. Sono le prime parole di Gesù, nel vangelo di Marco, quando inizia la sua attività pubblica. È un momento difficile, perché il Battista è stato imprigionato e poi verrà ucciso da Erode (Mc.6,17-29): terminata l’attività di Giovanni Battista, inizia quella di Gesù. Lui non attende momenti migliori per cominciare ad agire, a seminare vita. Inizia la sua opera in Galilea, regione lontana dal centro religioso e politico del paese, contaminata da stranieri, da pagani, dai lontani di Dio, dai cosiddetti “gentili”. Il tempo, fissato da Dio per realizzare le sue promesse, è arrivato. L’attesa è finita, il Regno di Dio è giunto. È un’occasione propizia, da non perdere: è kairòs. Il Signore si avvicina a noi in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, per  poterlo incontrare. È la buona notizia di Dio, è vangelo. Gesù annuncia che Dio sta per donarsi interamente a noi e sta per inaugurare il suo regno. Ma il suo progetto lo può realizzare soltanto se noi ci stiamo.

Allora cosa si deve fare?Convertitevi e credete al Vangelo”.  Il Regno di Dio è già qui in mezzo a noi, gratuitamente perché la sua presenza non è condizionata dalla nostra condotta religiosa e morale. È un dono da accogliere e non un premio da conquistare.
Convertirsi (metanoia) non significa fare il proposito fermo di evitare un peccato o l’altro, essere più buoni o bravi, moltiplicare le pratiche cultuali, ma cambiare radicalmente il modo di vedere Dio, l’uomo, la storia. Si tratta di cambiare soprattutto l’idea di Dio che in noi si è deformata, confrontandola con il vangelo di Gesù. Anche Giona pensava che non potesse esistere un altro Dio se non quello della sua immaginazione, al quale voleva insegnare il suo mestiere: chi assolvere, chi condannare, chi proteggere, chi annientare. Faceva fatica ad accettare un Dio infinitamente buono con tutti e che concedesse a tutti, anche ai pagani, “un’occasione” di salvezza. La conversione incide profondamente anche nel nostro comportamento: rinunciare all’ingiustizia e orientare la propria esistenza al bene degli altri.
La conversione riguarda anche la nostra fede. Credere consiste nel legarsi a Gesù, nel diventare suoi discepoli. L’evangelista mostra che cosa accade quando e dove il Regno di Dio, presente in Gesù, arriva e viene accolto: si segue una persona.  E così compaiono i nomi dei primi discepoli che hanno saputo accogliere la novità di Gesù: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni.

Sicuramente Marco ha stilizzato, condensato in poche righe, ciò che è avvenuto in un arco di tempo più lungo: viene narrato solo il momento decisivo della risposta e non il travaglio che l’ha preceduta.
Vuole far risaltare l’importanza di come l’incontro con Gesù ha cambiato radicalmente la vita dei primi discepoli: “subito” sono stati capaci di abbandonare la barca, le reti, i pesci, il padre… la tradizione, la professione, la cultura, i legami affettivi e familiari.
Anche Andrea e Simone (nomi di origine greca, quindi una comunità con mentalità aperta), Giacomo e Giovanni (nomi ebraici, attaccati alla tradizione e saranno quelli che nel vangelo manifesteranno delle difficoltà nel seguire Gesù), di sicuro, dovettero procedere a piccoli passi, superare le debolezze, le contraddizioni, le titubanze. Ma alla fine si sono fidati di Gesù. La sequela non è una conquista, ma un essere conquistati.
Questo “subito… all’istante” diventa un “sempre”: un cammino di fiducia che non si arrende, che non si ferma, nonostante le incomprensioni, i tradimenti, le cadute lungo il percorso. Se ogni giorno rinnoviamo la nostra fiducia in Lui, allora è possibile un cammino nel quale si maturano le decisioni di amore, di solidarietà, di condivisione, imitando lo stile di vita di Gesù.

La “chiamata” li coglie nel vivo delle loro attività quotidiane: stanno pescando (Simone e Andrea) o intenti a rassettare le reti (Giacomo e Giovanni). Nello svolgere le loro lavoro quotidiano, non si dimostrano ciechi, sordi o indifferenti, ma sanno ascoltare, si lasciano mettere in gioco, perfino riescono a lasciare tutto.
Lasciano tutto perché hanno capito che il lavoro, i beni materiali e gli affetti familiari non possono diventare il fine ultimo della loro vita (II lettura). Non seguono Gesù per imparare una dottrina per poi  trasmetterla agli altri, ma rimanere con Lui, e, insieme a Lui, vivere un progetto nuovo, cioè il Regno di Dio.

Sorprende la immediatezza della loro risposta: lasciano “subito” le reti o mollano “all’istante” il padre e gli altri aiutanti e seguono Gesù. Gesù ha fatto pesca grossa sulle rive del mare di Galilea.
La vocazione, alla quale tutti siamo chiamati, è una relazione personale con il Signore, ma al contempo un’esperienza aperta agli altri, un invito a vivere la fede come amore e servizio verso i fratelli. Infatti, “pescati” da Gesù, diventeranno pescatori di uomini. L’uomo è chiamato a non lasciare nulla di ciò che è. La sua identità rimane, cambia semplicemente l’oggetto del suo agire: non più pesci, ma uomini.
Perché Gesù li chiama a diventare pescatori di uomini? Gesù non li invita ad essere pastori o guide e neppure maestri, ma pescatori. L’azione del pescare implica togliere dal proprio ambiente naturale un animale e poi farlo morire. Invece, “pescare uomini” significa tirarli fuori da situazioni di morte, da un ambiente ostile, affinché abbiano vita.

Gesù passa e chiama anche oggi. Se la sua chiamata, che è rivolta a tutti, non ci fosse riproposta o ricordata, saremmo facilmente preda di mille proposte fatue e frivole, che riempiono la nostra vita, chiudendoci nei nostri bisogni, infangati nelle nostre attività quotidiane, soffocandoci nei problemi nel nostro piccolo cortile o campanile. La “chiamata” invece, ci risveglia e ci fa aprire le porte del nostro cuore agli impoveriti della storia, a quelle persone che sono cadute o immerse in acque di morte, a indicarci altri orizzonti più profondi e spaziosi.

Oggi ci sono molte barche (mezzi per realizzare la chiamata e la missione che Dio ci confida); ci sono molte reti (metodi, progetti pastorali, documenti ecclesiali); ciò che manca sono i pescatori.