27 aprile 2025 – II domenica di Pasqua – domenica della misericordia

Il vangelo di questa domenica associa la resurrezione di Gesù alla manifestazione della misericordia come perdono dei peccati ma anche come paziente superamento delle nostre mille resistenze a credere. Gli Atti degli apostoli raccontano come molti, pur riconoscendo con entusiasmo i segni operati dagli apostoli, conservano una fede da “spettatori” e non osano unirsi ai discepoli. Gli stessi discepoli nel Vangelo pur sperimentando la gioia di vedere il Risorto non riescono subito a vincere la paura di testimoniarlo. Per due volte il risorto deve raggiungerli a porte chiuse e rinnovare per loro il dono dello Spirito Santo. Questo è particolarmente vero per l’apostolo Tommaso che diventa l’esempio del passaggio da una fede vissuta “nel gruppo” ad una fede vissuta in modo più personale.

Tommaso non disprezza la fede degli altri visto che dopo otto giorni dalla prima apparizione di Gesù egli era ancora con loro nel cenacolo. Solo, tuttavia, quando egli dice: “Signor mio e Dio mio”, egli si muove da una fede superficiale basata sull’esperienza degli altri ad una fede più personale, basata sulla certezza che le ferite di Gesù non fanno più male, che cioè la resurrezione non è solo l’attesa di una vita futura ma è già anche la trasformazione della vita presente, con tutte le sue sofferenze, le sue contraddizioni e le sue tribolazioni. D’altra parte, quando Gesù dice a Tommaso: “Hai creduto perché hai visto”, non lo sta necessariamente rimproverando.

L’espressione può essere presa come una conferma di quell’approfondimento della fede che tutti dobbiamo compiere: dal credere per sentito dire, siamo invitati a passare al credere per aver visto, cioè per aver fatto un’esperienza vitale del Risorto. Questo non implica necessariamente vedere il risorto con gli occhi del corpo ma implica certamente la stessa beatitudine di chi può dire che la sofferenza non fa più paura e che le ferite della vita non sono dimenticate ma trasfigurate, cioè, diventano sorgente di una vita più profonda e reale. Tutte queste cose, conclude Giovanni, sono state scritte per noi. Perché crediamo che la resurrezione di Gesù può dare a noi la vita nel suo nome. Che, cioè, possiamo diventare partecipi fin da ora della vita risorta che è vita eterna. In tal senso non siamo tanto noi che tocchiamo il corpo risorto di Gesù, come voleva Tommaso, quanto il Signore Risorto che tocca il nostro corpo mortale. Ed è proprio quello che succede nell’apocalisse quando Gesù, nella sua condizione gloriosa, tocca il corpo di Giovanni, caduto mezzo morto ai suoi piedi, e gli dice: non temere.

L’esperienza di Giovanni deve illuminare la nostra. Egli dice di trovarsi prigioniero nell’isola di Patmos, quindi in una situazione di esilio, di tribolazione, di insicurezza. In questa situazione, tuttavia, egli riceve una chiamata a “guardare” la realtà con gli occhi della fede. A partire da questo sguardo diverso, Giovanni può dire di trovarsi non più solo nell’isola che lo imprigiona ma “nello spirito santo”. Il tempo che vive, inoltre, non è più solo il tempo dell’esilio ma è il giorno del Signore. Mettersi nello Spirito Santo significa andare oltre le porte chiuse. Lo spazio a porte chiuse è lo spazio oscurato da quella che Santa Caterina da Siena chiamava “la nube della concentrazione su sé stessi o della preoccupazione per se stessi”. Cioè, tutti quegli atteggiamenti autoreferenziali che possono dare l’illusione di fare i tuoi interessi, di evitarti fastidi, di nasconderti agli occhi degli altri ma che, in realtà, imprigionano nello spazio ristretto del proprio io solitario e incapace di comunione.

Ricevere lo Spirito Santo allora significa uscire da questa preoccupazione per sé stessi e imparare a guardare la realtà, non dal buco della serratura del proprio “io” egoistico, ma “dal cielo” aperto di cui parla Giovanni nell’apocalisse. Questo sguardo illuminato insegna a muoversi con fiducia anche quando si ha paura, a rischiare qualcosa per amore della verità, a riconoscere che la storia non è solo quello che posso fare io o che possono fare gli uomini. La storia è anche e soprattutto quell’unico giorno che il Signore ha fatto e che introduce la potenza della resurrezione nei fatti della vita. Il giorno fatto dal signore, infatti, non è solo la domenica ma propriamente l’oggi della vita eterna, il tempo riempito non solo da piccole speranze immediate ma dalla grande speranza di vivere della vita di Dio. Da questo sguardo di fede dipende la nostra conversione. Per questa fede la parola di Dio suona alle orecchie di Giovanni come una tromba che lo scuote e lo fa voltare indietro, che lo illumina, cioè, circa il fatto che lui per primo è continuamente chiamato a conversione. E Giovanni percepisce così profondamente la propria inadeguatezza da cadere come morto. Ma è proprio allora che comincia a desiderare di avere la vita per mezzo di Cristo e può ascoltare le parole del Risorto: Alzati, risorgi. Non temere. La misericordia di Dio è fondamentalmente l’anticipazione della nostra resurrezione.