25 maggio 2025 – VI domenica di Pasqua

Giovanni nell’apocalisse descrive in visione il compimento della storia dell’umanità come il raggiungimento di una comunione profondissima e intimissima tra Dio e il suo popolo. Nella nuova Gerusalemme che scende dal cielo non c’è più un tempio. Dio stesso, creatore di ogni cosa, diventa il tempio del suo popolo e l’agnello diventa la loro luce. Il fatto, poi, che la città scenda dal cielo e che essa sia piena di oro e di ogni pietra preziosa significa che un tale compimento non è proporzionato ai meriti o alle forze dell’uomo ma è un dono della grazia. Significativamente le fondamenta della città portano il nome dagli apostoli mentre gli architravi delle porte quelli delle dodici tribù di Israele, laddove ci si aspetterebbe il contrario nel rispetto della successione storica degli avvenimenti. Quasi a dire che non è tanto quello che han fatto i patriarchi nel tempo che determina il glorioso destino descritto dall’apocalisse quanto l’opera conclusiva di Dio in Cristo che dà senso e compimento a tutto ciò che viene prima. La storia di Dio è una promessa non un programma.

Questo vale anche per le nostre storie individuali. Non è quello che riusciamo a realizzare con le nostre forze che determina il nostro destino ma al contrario è il nostro destino di salvati che da senso ai nostri sforzi, anche fallimentari. Dobbiamo imparare a vederci già nella piazza d’oro della nuova Gerusalemme circondata da mura preziose e illuminata dall’agnello, investiti di una regalità che, anche se non la possediamo ancora, ci appartiene di diritto. Facciamo fatica a credere a queste promesse e vorremmo delle prove più immediate. Giuda l’apostolo obietta a Gesù nel cenacolo: perché succede che noi ti conosciamo e il mondo non ti conosce? Perché la salvezza non è certificabile in maniera evidente, in modo definitivo e convincente anche per il mondo?

Gesù risponde richiamando le esigenze della fede. Se mi amaste, dice Gesù ai discepoli, sareste felici del fatto che vado al padre. È ovvio che i discepoli amano Gesù ma lo amano con un amore ancora molto mondano, tangibile ma debole. Non credono ancora con fermezza che l’amore del Padre è più grande e che quindi l’opera di Dio è più grande di quella dell’uomo. Io sono con voi nel mondo ancora per poco, continua Gesù. Eppure, è meglio per voi che io vada al Padre perché, essendo il Padre più grande della mia umanità, questo mi permetterà di tornare a voi con una grazia più grande, proporzionata alla sua divinità. Anzi Gesù assicura che egli tornerà insieme al Padre ed allo Spirito Santo per trovare dimora presso ciascuno di noi. In altre parole, quella comunione finale tra Dio e il suo popolo descritta nell’apocalisse comincia fin da ora nel cuore di ciascuno credente. La gloria di Dio che nell’antico testamento era inavvicinabile, adesso vuole abitare in noi. E’ questa consapevolezza che permette ai discepoli di dire: noi e lo Spirito Santo abbiamo deciso …”

Anche se esternamente le circostanze possono rimanere molto umili e insignificanti, per la fede ciascun individuo può attendersi una vera glorificazione della sua interiorità che ne fa un discepolo di Gesù, uno illuminato, guidato dalla luce dell’agnello. Segno esteriore di questa glorificazione nascosta sono la pace nell’affrontare ciò che normalmente suscita paura e la fortezza nell’affrontare ciò che normalmente genera timidezza, vergogna, esitazione. Non siate paurosi e non siate timidi, dice Gesù. Cercate la vostra forza e la vostra gloria dalla fede, dalle promesse in cui avete creduto. In questo senso si spiega la grande controversia di cui si parla negli atti degli apostoli. I giudei ancora immaturi nella fede continuavano a credere che la salvezza dipende dall’osservanza della legge e quindi dall’opera dell’uomo, dalle sue forze. Paolo e Barnaba lottano invece strenuamente per conservare la priorità alla fede che opera nel cuore dell’uomo in un modo che il mondo non riconosce.

Le raccomandazioni degli apostoli negli Atti sono finalizzate a custodire la fede e non a dettare regole esteriori. Astenersi dalle carni offerte agli idoli significa dare priorità nel proprio cuore alla fiducia in Dio rispetto a qualsiasi a qualsiasi sicurezza mondana o esteriore di cui l’idolatria è espressione. Astenersi dal sangue significa conservare la fede nel fatto che la vita appartiene a Dio, che quindi essa e’ già eterna e che deve essere rispettata e preservata dal suo nascere al suo morire. L’astensione dalle unioni illegittime implica la vigilanza nel saper distinguere l’amore che salva la comunione e la dignità delle persone da qualsiasi altro falso amore. Queste esigenze interiori si spiegano soprattutto a partire dalla dignità di cui siamo stati investiti dalle promesse di Cristo. Siamo destinati a vivere nella piazza d’oro e in una città fatta di pietre preziose, siamo chiamati a condividere la regalità dell’agnello e a partecipare alla vita divina.