Il 18 maggio 2025 – V domenica di Pasqua anno c

Il Vangelo descrive uno dei momenti più bui del cammino di Gesù con i suoi discepoli prima della passione. Gesù ha appena lavato i piedi a tutti i discepoli ed ecco che Giuda, afferrato da Satana, abbandona il cenacolo, determinato a consegnare Gesù ai suoi nemici. Di fronte a questo fatto Gesù, consapevolmente, riconosce non un fallimento ma una possibilità. Egli annuncia, quindi, che proprio il buio di quelle circostanze è l’occasione perché risplenda con più evidenza la luce di un amore nuovo. Mentre il tradimento di Giuda e degli altri discepoli mette in luce l’amore debole degli uomini la fedeltà di Gesù fa risplendere l’amore forte del Padre che non giudica tale debolezza ma l’assume per trasfigurarla.

Non a caso il compimento del disegno salvifico di Dio per l’umanità è descritto come uno sposalizio in cui la nuova Gerusalemme è adorna come una sposa. Essa, tuttavia, non sale dalla terra ma scende dal cielo, come cioè una creatura resa bella da Dio stesso e non dai suoi meriti o dalle sue qualità terrene. L’umanità di questa città celeste, infatti, non vive più per sé stessa ma per la vita che viene da Dio. Dio diventa il “Dio con loro” ed essa diventa “suo popolo”. Per questo Gesù può dire vi do un “comandamento” nuovo per il quale tutti vi riconosceranno come miei discepoli: che vi amiate come io vi ho amato, con l’amore che viene da Dio e che attraverso di me passa al mondo. Il comandamento di Gesù non è quello di amarci come possiamo, come sappiamo, come abbiamo imparato dagli altri ma è quello di amarci come ci ha amati lui. Quante volte si vorrebbe giustificare qualsiasi tipo di relazione sulla base che si tratta “solo di amore”. Gesù ci ricorda che solo l’amore che attinge dalla forza della resurrezione e’ salvifico, purifica l’amore umano dalla sua meschinità, dal suo egoismo, dalla sua debolezza quindi solo il suo amore è normativo.

“Ancora per poco sono con voi” egli dice, ma se avrete fede, io sarò con voi vivo ed operante con voi. È per questo che negli Atti si legge che egli apostoli affidavano le loro comunità, non semplicemente alla bravura dei presbiteri eletti, ma al Signore stesso e quando dovevano riferire del loro ministero raccontavano “ciò che Dio aveva fatto con loro”. Essi, insomma, vivevano consapevoli della presenza viva di Cristo in mezzo a loro e questa certezza li spinge a spostarsi rapidamente da una città all’altra- Derbe, Listra, Iconio, Antiochia, Perge – sicuri che la stabilità delle comunità non dipende tanto dal loro lavoro o dalle circostanze umane quanto appunto dalla grazia del risorto e dalla loro fede in Lui. Questa fede è descritta come una porta. Essa non è un nido per star tranquilli ma un passaggio per rimettersi ogni giorno in cammino. Secondariamente essa, facendoci partecipare alla vita risorta di Cristo, anticipa in un certo senso il passaggio finale da questo mondo al Regno di Dio, descritto nell’apocalisse, invitandoci ogni giorno a lasciare un modo di vivere invecchiato dal peccato per entrare in quella novità di vita che Gesù ha inaugurato. Per la fede, infatti, diventiamo capaci di amare come Gesù ci ha amato, cioè di passare da un amore debole che si esaurisce nella reciprocità del sentimento o nell’impulsività del momento ad un amore divino che è più forte della morte, cioè più forte di ogni rifiuto, più forte del male personale e storico.

Nella misura in cui il nostro vivere è Cristo anche il nostro amare diventa espressione del suo amore. L’invito di Gesù di amarci come egli ci ha amato riassume tutta la legge antica e, in quanto comandamento, sposta tutto lo sforzo della volontà umana dal compimento di una legge esteriore alla purificazione interiore del cuore per disporlo ad amare in tutte le cose. Questo non è sempre ovvio come non era ovvio per i discepoli che il tradimento di Giuda potesse manifestare la gloria di Dio. Diventa possibile per la fede nella resurrezione. La fede e’ una porta perché apre cammini e fa passare attraverso situazioni umanamente chiuse, come poteva essere il sepolcro di Gesù. Non a caso gli apostoli ricordano ai loro discepoli che è necessario passare attraverso la tribolazione per entrare nel Regno di Dio, cioè per fare esperienza piena della resurrezione.

Ma è proprio questo il cuore della fede nella resurrezione: non solo al momento della morte ma in ogni esperienza umana di tribolazione, se l’attraversiamo insieme a Cristo, determinati ad amare come lui, cioè nel dono di noi stessi, allora invece di cadere in una fossa alla fine facciamo esperienza di passare attraverso una porta. Scopriamo un modo nuovo di vivere e di amare ed entriamo in una dimensione nuova del vivere che fa nuove tutte le cose e che ci fa scoprire una relazione nuova con il Padre, come Colui che non ci evita le lacrime ma ce le asciuga personalmente e compassionevolmente dai nostri occhi.