27 luglio 2025 – XVII domenica anno c
Il Vangelo di oggi ci mostra Gesù in preghiera. Benché esso non dica nulla di come egli pregasse, il fatto che i discepoli abbiano atteso che finisse prima di interromperlo e che gli abbiano chiesto di insegnare anche a loro a pregare nello stesso modo, suggerisce che quel suo modo di pregare suscitava un’attrattiva particolare su di loro e probabilmente rappresentava una novità. Gesù, dunque, risponde alla loro domanda chiarendo che il senso ultimo della preghiera non è tanto ottenere una cosa o l’altra ma accogliere lo Spirito Santo che il Padre dona a coloro che lo chiedono.
In questa prospettiva le brevi parole del padre nostro descrivono in sintesi cosa significa vivere nello Spirito Santo e quindi da figli di Dio: sintonizzare la nostra volontà con quella del Padre, accogliere la vita come un dono giorno per giorno, chiedere perdono e perdonare e quindi combattere fino alla fine per rimanere liberi dal male. La preghiera cristiana, insomma, è al servizio della vita buona e felice. Se Dio, infatti, è padre egli è anche la sorgente di ogni vita. Pregarlo significa dunque fondamentalmente disporsi ad accogliere la vita come qualcosa che procede da Lui. La qualità della nostra preghiera, di conseguenza, si manifesta nella graduale assimilazione della nostra vita mortale alla vita divina che attualizza il nostro battesimo e ci fa figli di Dio.
San Paolo descrive proprio l’eccezionalità di questa evoluzione o sviluppo quando dice che per il battesimo noi veniamo così intimamente uniti a Gesù da essere sepolti con lui e quindi da essere anche resuscitati insieme a lui. Per questa nostra partecipazione nella fede al mistero pasquale, cioè, ritroviamo in noi quella stessa energia di vita con la quale il Padre ha resuscitato suo figlio. La cosa potrebbe lasciarci abbastanza indifferenti per il fatto che noi non percepiamo immediatamente tutta la bellezza della vita risorta e soprattutto non ci accorgiamo immediatamente di vivere una vita morta. Gesù si riferisce proprio a questa nostra condizione di cecità quando dice: se voi che siate “cattivi” sapete dare cose buone ai vostri figli quanto più il padre darà a voi la vita dello Spirito Santo.
Il nostro essere “cattivi” non consiste semplicemente nella possibilità di fare il male ma si riferisce più radicalmente alla nostra condizione esistenziale di cattività o prigionia. Siamo infatti prigionieri della morte in quanto impossibilitati a pagare il nostro debito nei confronti di essa. Nessuno può andare oltre il limite della sua mortalità e quindi nessuno può andare oltre il limite di una “moralità” solamente umana. È ancora possibile, dice Gesù nella parabola evangelica, che un padre dia un pesce al figlio per condiscendenza, anche controvoglia, oppure che un amico dia un pane ad un visitatore importuno, anche solo per la sua invadenza! ma chi darebbe la vita per dei “cattivi”? Noi insomma potremmo anche vivere da persone per bene, ma mai da creature amanti che imitano la vita di Dio e quindi parlano, agiscono e pensano secondo l’amore dello Spirito Santo.
Perfino la preghiera di intercessione di Abramo si è fermata alla possibilità di trovare dieci giusti nel mezzo di Sodoma, in quanto nemmeno Abramo poteva pensare ad un amore che oltrepassa il limite della giustizia umana e raggiunge un popolo in cui non vi sia nemmeno un solo giusto. Sarà il figlio di Dio, in qualità di unico giusto morto per tutti, come dice San Paolo, a spazzare via il nostro debito inchiodandolo alla croce, cioè, pagandolo personalmente e interamente con il dono della propria vita divino-umana. Da quel momento la preghiera diventa l’espressione di un crescente desiderio di unirsi alla sua morte e resurrezione. Cioè, di mettere fine ad una vita cattiva, debitrice al peccato e fondamentalmente vuota per lasciare emergere l’energia della resurrezione che è la vita nuova nello Spirito Santo.
Questo è necessario non solo perché la nostra vita sia piena ma anche perché la nostra vita di per sé cattiva non degeneri sempre di più, sia a livello personale che a livello sociale. Laddove, infatti, la preghiera cessa di salire al Padre dalla comunità dei suoi figli, essa viene gradualmente sostituita dal “grido” di malvagità che sale a Dio come il grido della città di Sodoma. Piu, cioè, il desiderio della preghiera viene meno più esso sarà sostituito dal grido della nostra cattività che è un misto di sofferenza e di rabbia. Per coltivare il desiderio della preghiera, ricorda Gesù, occorre superare la timidezza nel chiedere, la pigrizia nel cercare e la diffidenza nel bussare. Può aiutarci a far questo il ricordo del fatto che la grazia dello Spirito Santo non è una ricompensa ai nostri meriti ma la risposta sollecita del Padre al nostro grido di aiuto. (Cf. A. Grun).