27 settembre 2025 – XXV domenica /  c

Per comprendere l’insolita parabola del Vangelo odierno occorre partire dall’insegnamento conclusivo di Gesù. Ci sono delle cose, egli dice, che possono occupare il cuore in maniera così totalizzante da asservirlo. Non è possibile allora servire al contempo Dio e i beni materiali. Se ami l’uno odierai l’altro e se servi l’uno disprezzerai l’altro. Ebbene è proprio questo ciò che accade nel cuore di ogni uomo. Senza l’aiuto della grazia, infatti, regolarmente questi tende a sottrarsi al servizio di Dio, che è il datore di ogni bene,  per scivolare, quasi senza accorgersene, nell’asservimento al denaro e all’interesse proprio. Quasi senza accorgercene, non solo in questioni economiche, ma in ogni interazione col prossimo usiamo due pesi e due misure, favorendo noi stessi quando è in gioco l’interesse nostro e cercando di sopraffare gli altri quando è invece il loro interesse in gioco.

Il profeta Amos descrive drammaticamente questo processo quando rimprovera gli israeliti di rispettare formalmente il giorno del sabato ma solo per aspettare il giorno del mercato. Allora torneranno al loro commercio falsificando le bilance, comperando a poco prezzo i beni dei poveri in difficoltà, vendendo con inganno anche gli scarti del grano, mettendo insomma il loro guadagno al di sopra di Dio. Come può tutta questa ingiustizia convivere con una coscienza tranquilla e soddisfatta di sé? Il punto è che il cuore dell’uomo è facilmente ingannato e scambia per onesto ciò che in realtà non lo è. Pochi si rendono conto che tutti, regolarmente, nel trattare col prossimo, usano due pesi e due misure, diventando esigenti quando si tratta dell’interesse altrui e accondiscendenti quando si tratta dell’interesse proprio. Questo spiega l’insegnamento paradossale e provocatorio della parabola di Luca.

Tutto ciò di cui noi disponiamo, incluso il bene della vita, non è originariamente un possesso ma soltanto un’amministrazione a noi affidata. Non di meno, a poco a poco, noi tutti tendiamo a percepire noi stessi come proprietari piuttosto che amministratori, trasformando così i beni che usiamo in una ricchezza disonesta. Alla fine della vita tutti dovremmo affrontare, come il protagonista della parabola, questa bruciante esigenza: rendi conto della tua amministrazione. E tutti ci troveremo nell’imbarazzante situazione di non poter ritenere noi stessi giusti. E questo soprattutto se abbiamo avuto molti beni a nostra disposizione. Come, infatti, per la soluzione di un problema complesso occorre una grande intelligenza così per l’amministrazione di grandi ricchezze occorre una grande onestà.

Ora uno solo, dirà S. Paolo, ha amministrato la sua grande ricchezza secondo la volontà del padre. Colui che ha dato se stesso per tutti. Colui cioè che non ha usato nulla per sé stesso e non è vissuto per se stesso ma per il bene di tutti. Perché tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità e quindi ad un cuore libero da ogni inganno e falsità. Poiché nessuno poteva ritrovare l’alleanza con Dio in termini di onestà e di giustizia Gesù si è fatto unico mediatore tra gli uomini e Dio e ci ha resi in grado di condividere la vita del Padre. Per quanto al presente questa vita possa apparire una promessa vaga e distante Gesù insiste che essa è la sola ricchezza che possiamo chiamare vera, perché duratura, e nostra perché data non in amministrazione ma in possesso, come può essere il possesso delle cose del Padre per chi vive nella sua casa come un figlio.

Alla luce di questa promessa Gesù pone una domanda e lancia una sfida. La domanda è se il nostro cuore è abbastanza libero per desiderare qualcosa di più dei beni temporali. Chi non è stato fedele al suo ruolo di amministratore nei confronti dei beni di questo mondo, ma li ha considerati i suoi beni “definitivi” perché dovrebbe avere spazio nel cuore per apprezzare e accogliere quei beni che invece Gesù ci ha procurato e che possederemo non da amministratori ma da figli? La sfida allora è quella di imparare la fedeltà nelle piccole cose. Anche le persone disoneste, come il servo della parabola, sono abbastanza sagge da cercare la soluzione minimamente più efficace quando si rendono conto di non aver risorse proprie per risolvere più radicalmente un problema. Perché i figli della luce non dovrebbero fare lo stesso? Dio non si aspetta che siamo subito perfetti in tutte le cose o che realizziamo subito grandi opere di bene o che impieghiamo sforzi impossibili. Egli desidera che cominciamo dal poco che possiamo fare. Un piccolo gesto di solidarietà, di servizio o di attenzione non ci rende necessariamente giusti davanti a Dio ma rende il suo cuore più comprensivo e lo spinge irresistibilmente a darci quei beni che il Figlio ci ha guadagnato e che ci dispongono a cose più grandi.