Corpus Domini 2024

All’inizio della creazione Dio dà all’uomo un comando singolare che non avrebbe ragione di esserci se avesse un carattere solo funzionale. Prendete e mangiate dei frutti della terra. Questo comando doveva ricordare all’uomo non tanto il suo bisogno di mangiare quanto quello di ringraziare. Il nutrimento, infatti, che prima del peccato poteva essere ottenuto senza fatica, ricorda all’uomo che la vita non è un suo possesso o un suo bene di consumo ma rimane un dono da accogliere ogni giorno dall’amore di Dio. Il peccato ha introdotto una sorta di distorsione in questa percezione originaria della vita come dono di Dio, facendo sì che l’uomo, prima ancora di scoprirsi nudo, si scopra affamato. Il peccato al posto della consapevolezza dell’esistenza di Dio, che dovrebbe rimanere al centro del cuore umano, mette la consapevolezza della sua fame. Questo suscita in lui l’ansia di appropriarsi della vita che percepisce come “mortale”, quindi precaria, e la voglia di “salvarsi da solo”, indipendentemente dal suo creatore. E così l’uomo muore.

Eppure, prega il salmista, preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli. Dio non resta indifferente a questa situazione e compie vari tentativi da Noè ad Abramo fino a Mosè di ristabilire questa alleanza con il suo popolo. Un’alleanza che doveva essere sigillata dal sangue versato sull’altare e poi spruzzato sul popolo. Perché nel sangue c’è la vita e quindi il sangue doveva ricordare che l’unico “proprietario” della vita è Dio, perché solo Dio è propriamente il Dio vivente.  Ma mentre nelle alleanze umane il sangue ricorda che il più forte può prendersi la vita dell’alleato più debole, nel caso dell’alleanza tra Dio e il suo popolo è il forte che si impegna fino al dono della vita. L’amore di Dio è un amore esagerato, fino al versamento del sangue. Dio non dona delle cose ma sé stesso. Dio non dona solo qualcosa della sua vita ma tutto, assolutamente tutto. Dio dona il sangue.

Quando pensiamo all’amore di Dio dovremmo pensare al sangue versato che non può più essere ripreso. Ad un amore totale ed irrevocabile. Ma mentre per gli uomini il versamento del sangue sarebbe la conclusione di una vita di amore di cui non resterebbe che il ricordo, per Dio esso diventa l’inizio di una comunione “nuova ed eterna”. Offrendo sé stesso al Padre una volta per tutte – dice la lettera agli Ebrei – Gesù entra nel santuario dei cieli, e purifica la nostra coscienza rendendola capace di ritrovare l’alleanza con Dio, cioè di non vivere più compiendo delle opere morte, senza futuro duraturo, ma di vivere servendo il Dio vivente. Servire il Dio vivente non significa fare qualcosa per Dio ma compiere le nostre opere di ogni giorno in comunione con Dio, in maniera tale che anch’esse diventino opere viventi, opere di amore. Questa purificazione della coscienza non poteva essere ottenuta con un rito esteriore oppure con uno sforzo solo umano. Occorreva un’assimilazione piena alla coscienza filiale di Gesù che si realizza partecipando alla sua Pasqua. Ecco allora che il comando iniziale di prendere dei frutti della terra e mangiarne trova compimento nel comando evangelico di Gesù: prendete e maniate questo è il mio corpo.  Prendete del mio sangue, che è la vita stessa di Dio, e bevetene, in modo tale da sigillare una nuova alleanza, basata non sull’osservanza di regole esterne ma su un atteggiamento esistenziale di accoglienza di quella vita nuova, risorta ed eterna che il Padre vuole riversare in me e attraverso di me sin voi tutti. Il tempio in cui si sigilla questa alleanza non è più esterno all’uomo, ma e’ il suo stesso cuore, la sua stessa coscienza che nella fede si affida al Dio vivente.

Nel Vangelo Gesù affida ai suoi discepoli una domanda da fare al padrone di casa del cenacolo e per estensione a chiunque si disponga ad accoglierla il Vangelo: dove è il luogo in cui io possa celebrare la mia Pasqua? Ciascuno deve dire di sì a questo invito perché il luogo già predisposto per la celebrazione di questo passaggio è fondamentalmente l’interiorità di ciascuno di noi. E nella nostra coscienza che si realizza il passaggio dalle opere morte al servizio del Dio vivente; da un atteggiamento possessivo e consumistico nei confronti della vita ad un atteggiamento eucaristico, disposto a rendere grazie sempre e in ogni luogo, capace di donare la vita perché consapevole che questa vita la riceve costantemente da Dio e quindi è vita eterna. L’eucaristia ci ricorda che la vita piena non si riduce a quella che conosciamo noi nella nostra natura ferita, ma trova il suo compimento in quei “beni futuri” di cui Gesù è il mediatore. Non è tanto questione di aspettare una vita “soprannaturale” quanto di rendersi conto che la vita che conosciamo non è ancora pienamente secondo natura. Come il pane ed il vino diventano veramente nutrienti e datori di vita quando diventano eucaristici, così la nostra vita acquista la sua piena natura solo quando diventa eucaristica.