Domenica 7 aprile 24 – II Pasqua /B – Domenica della divina misericordia

Spesso si pensa alla resurrezione come ad un’idea che si è creata nella mente dei discepoli oppure ad una loro esperienza soggettiva che non implica necessariamente un fatto esteriore riconoscibile. Il Vangelo di oggi ci presenta la situazione esattamente contraria. La resurrezione è un fatto oggettivo, accaduto nella realtà ma che fa fatica a penetrare nell’intimo dei discepoli. In tal senso l’invito di Gesù a Tommaso ci riguarda tutti: smetti di essere non credente e diventa credente. L’immagine della stanza a porte chiuse descrive bene uno spazio interiore che lo spirito santo deve ripetutamente penetrare per infondervi la fede; uno spazio dominato da paure, chiusure, nascondimenti, sensi di colpa, fallimenti, inadeguatezze. In questo spazio interiore che somiglia così tanto alla nostra esperienza quotidiana risuona la parola del Risorto: pace a voi. Essa ci invita a credere che la natura profonda di Dio è misericordia e che questa divina misericordia non si limita a perdonare ma rinnova in noi il soffio creatore dello Spirito Santo, cioè, abilita la nostra umanità a contenere ed esprimere la vita divina.

Questa vita divina non consiste di cose straordinarie ma fondamentalmente di un modo nuovo di relazionarsi descritto in termini molto tangibili negli atti degli apostoli. I credenti non sono più preoccupati delle proprie cose ma animati dal desiderio di mettere tutto in comune, di condividere, di creare comunione. Diventano un cuore solo ed un’anima sola. Questa possibilità di comunione nell’amore implica la libertà da quell’individualismo egoista che caratterizza la natura umana non redenta. Ma questa libertà non può essere un fatto solo piscologico. Essa implica una vera resurrezione perché implica il superamento della paura di morire e quindi della preoccupazione di mettere sé stessi al primo posto. In tal senso gli Atti possono scrivere che gli apostoli davano testimonianza della resurrezione di Gesù con grande potenza. Tale potenza non si riferisce tanto a discorsi persuasivi quanto ad uno stile di vita veramente nuovo in cui la comunione è determinata non più dalla carne e dal sangue ma semplicemente dalla comune partecipazione alla vita di Dio data nello Spirito Santo a coloro che credono.

Per questo i primi credenti potevano vendere i loro terreni. Non si trattava solo di un atto di carità ma propriamente di fede. Vendere la terra per un israelita era un caso estremo in quanto essa rappresentava la sua appartenenza a un popolo, il possesso delle promesse, la vita da ereditare, tutta la sicurezza che uno può avere in questo mondo. La loro libertà, adesso, non dipende più da fattori esterni ma da questa certezza interiore: che abbiamo la vita eterna, partecipiamo alla vita e di Dio e quindi siamo resi capaci di vivere da figli di Dio. Pace a voi. Ricevete lo Spirito Santo. L’amore che genera comunione, in effetti, non è solo un sentimento umano. Di fatto esso non è riconoscibile a partire dai soli sentimenti. Come sappiamo, si chiede Giovanni, se amiamo il prossimo? Dal fatto che osserviamo i comandamenti, che cioè facciamo dipendere il nostro amore dal fatto che rimaniamo in relazione con il Padre. Quei comandamenti che sarebbero stati troppo pesanti per noi da osservare sotto la legge diventano una possibilità attraente se illuminati dalla misericordia del Padre. Conservare i comandamenti, infatti, non significa diventare perfettini e supereroi della moralità in un colpo solo. Conservare il comandamento significa camminare serenamente secondo il proprio passo nella direzione dell’amore conservando la relazione filiale anche quando sbagliamo o ci scopriamo inadeguati. Quando sbagliamo, in effetti, la tentazione che segue immediatamente è quella di nascondersi e fuggire dalla relazione col Padre perché ci si sente indegni, come i discepoli a porte chiuse, oppure di buttare via il comandamento perché troppo pesante e quindi arrendersi alla vita del mondo. Solo la fiducia nella misericordia del padre ci incoraggia a riprenderlo e conservarlo finché non diventa leggero e finché non ci rende forti abbastanza per vincere il mondo. Per vincere, cioè, quel giudizio su sé stessi e sulla vita che dipende da criteri semplicemente mondani, naturali, funzionali: cosa sai fare, quanto guadagni, quanto sei importante, quanti amici hai, quanti like riesci ad ottenere sui social. L’uomo, anche l’uomo religioso, che non crede all’amore di Dio è un uomo pauroso per natura. Ha paura della propria inadeguatezza e del giudizio altrui e a sua volta giudica tutti perché in tutti riconosce prima o poi una qualche inadeguatezza. Vive in termini di competizione perché deve conquistare e difendere la vita che dà il mondo e che è l’unica vita che conosce.

Facciamo fatica a credere in un Dio che ci incontra invece semplicemente nella misericordia. La diffidenza di Tommaso non è solo sfiducia nella resurrezione ma sfiducia nella misericordia e, in tal senso, essa riflette la sfiducia di ogni uomo. Tommaso dice di non poter credere, non perché non ha visto Gesù risorto nella sua gloria, ma perché non ha messo il dito nelle sue piaghe.  Egli sta dicendo che non può credere che Dio possa rispondere al rifiuto con l’accoglienza, alla ferita con il perdono, al peccato con la misericordia. Eppure, è proprio questa la fede che Gesù gli chiede: tocca le mie piaghe, metti la mano nel mio costato. Vedi come io rispondo al rifiuto e alla durezza del tuo cuore. Credi e cresci liberamente e serenamente sotto il mio sguardo di Padre.