18 febbraio 2024 prima domenica di Quaresima / B

All’inizio del suo ministero pubblico Gesù sperimenta un combattimento tra lo Spirito Santo che lo getta nel deserto e lo spirito del male che vuole metterlo alla prova. La lettera Di Pietro spiega più in dettaglio la natura di questo combattimento. Cristo ha sofferto per i peccati, giusto per gli ingiusti, accettando di morire nella carne per poter rivivere nello spirito. Nel deserto, cioè, Gesù, affronta fuori di sé quello che noi sperimentiamo in noi stessi, nella nostra natura ferita: la lotta tra la carne e lo spirito.  Egli viene dove siamo noi, continua Pietro, per ricondurci a Dio. Non si trattava soltanto di portare Dio agli uomini. La missione di Gesù era anche quella di riportare gli uomini a Dio, quella cioè di elevare la loro natura. La scena finale del Vangelo che descrive Gesù tra le bestie selvatiche e gli angeli che lo servono vorrebbe mettere in luce come per il battesimo l’uomo rinasce in Cristo ad una vita nuova che è chiamata a realizzare un punto di congiunzione tra la terra e il cielo. La natura dell’uomo, che partecipa a quella delle bestie selvatiche nella sua dimensione di istinti, emotività, attaccamenti alla terra, in Gesù viene servita dagli angeli, cioè, educata ad accogliere la grazia e la vita divina.

Dopo il diluvio Dio aveva posto un arco puntato verso il cielo, come segno della sua alleanza con ogni “carne”, perfino con gli animali. Dopo la Pasqua il Padre pone Gesù come un segno della sua alleanza con noi, non nel cielo, ma appunto nel nostro deserto, nel luogo delle nostre tentazioni, laddove ci sentiamo più deboli ed esposti, se vogliamo più vicini alle bestie selvatiche. Non deve stupire allora che ci sia un combattimento dentro di noi come c’era un combattimento in Gesù tra lo Spirito Santo e il tentatore che vorrebbe ci accontentassimo di quella vita carnale che condividiamo con le bestie. Noi consideriamo la quaresima un tempo “forte” e non un tempo triste, perché crediamo che, seppur esiste un combattimento tra la carne e lo spirito, esiste anche una grazia che si pone a nostro servizio, come gli angeli si mettevano al servizio di Gesù. Vi sono due fattori, in particolare che possono vanificare il dono della grazia in questo combattimento: la dimenticanza e la disobbedienza. La dimenticanza non è soltanto un vuoto di memoria ma è più fondamentalmente superficialità, disattenzione, infedeltà alla propria storia.

Rimanendo 40 giorni nel deserto Gesù recupera la storia che Dio ha fatto con Israele e che è stata marcata dai quarant’anni nel deserto. Del resto, anche il diluvio era durato 40 giorni perché esso non doveva limitarsi a distruggere l’umanità vecchia, corrotta dal peccato. Per far questo sarebbero bastati un paio di giorni. Esso doveva educare coloro che stavano nell’arca a riconoscere in quell’evento disastroso una storia di salvezza e quindi a custodire il ricordo del fatto che Dio vuole salvare e non distruggere la nostra vita. Il tempo paziente di Dio ci insegna a rimanere nella nostra storia come Gesù rimaneva nel deserto, e Noè nell’arca; a perseverare, a non cercare soluzioni magiche alle difficoltà della vita ma ad aver fiducia nel fatto che, anche quando intorno a noi ci fosse un diluvio che distrugge tutte le nostre certezze e sicurezze, Dio è nostro alleato, nostro Padre, nostra salvezza. Era questo il Vangelo di Dio che Gesù annunciava. Il Regno di Dio è vicino, si fa presente nella tua storia. Convertitevi. Smettete di vivere solo per voi stessi e cercate di accogliere questo invito alla salvezza che si concretizza non in un’arca ma in una persona che è Gesù stesso, vivo, risorto, capace di ricondurci a Dio.

È lui che annuncia il Vangelo di Dio ancora oggi come faceva subito dopo la sua vittoria sulle tentazioni e ci chiama a conversione e quindi a combattere la nostra tendenza fondamentale alla disobbedienza. La nostra disobbedienza non è semplicemente la violazione di regole ma resistenza all’ascolto, alla fiducia, a lasciarsi condurre. Questa resistenza alla fine diventa una catena per noi stessi perché ci tiene prigionieri di noi stessi, della nostra autoreferenzialità, del nostro voler farci da soli e ci impedisce di crescere e di cambiare. Il battesimo diventa invocazione di salvezza quando prendiamo coscienza che la pienezza di vita per l’uomo non può essere meno della vita del cielo e che esiste uno solo che può farci passare indenni attraverso la morte come l’Arca ha fatto passare indenne Noè attraverso il diluvio: il Cristo risorto. Per questo San Pietro dice che Gesù con la sua morte poté raggiungere anche gli spiriti disobbedienti e in prigione per ricondurre anche loro a Dio. Pietro vuol dire che l’autorità di Gesù è grande e che, se egli può chiamare a libertà gli spiriti disobbedienti in prigione, può chiamare anche noi alla stessa libertà restituendoci non una pulizia esteriore ma una buona coscienza. Una coscienza cioè che ha vinto il combattimento contro la dimenticanza e la disobbedienza. Una coscienza che sa ascoltare la verità, che sa rientrare in sé stessa, che cerca di fare discernimento tra il vero bene e falsi beni.