Domenica 28 gennaio 2024 – IV /a

Il racconto del deuteronomio mette in luce come fin da subito nella comunità di Israele, da poco uscito dall’Egitto, nasceva il problema di riconoscere qualcuno che parlasse con autorità nel guidare gli altri sulle vie del Signore e mantenere la libertà acquisita. Da un lato gli israeliti riconoscevano che sarebbe stato presuntuoso pretendere un intervento diretto di Dio la cui parola è come un fuoco divorante. Essi accettano allora di essere guidati da un profeta tratto dal loro popolo, uno di loro che con parole umane avrebbe loro trasmesso la volontà di Dio. D’altro canto, Mosè deve mettere in guardia il popolo circa il pericolo opposto. Quello di rimanere indifferenti alle parole del profeta proprio perché esse arrivano alle orecchie di chi ascolta come parole umane e non più come parole di Dio.

La situazione mette in luce una tentazione perenne presente nel cuore dell’uomo peccatore che è quella dell’autoreferenzialità, quella cioè di fare di se stessi la misura del vero e del falso, del bene e del male. È la tentazione di credere che sia vero quello che ci fa comodo e che sia falso quello che in fondo noi stessi vorremmo che fosse falso. Questa tentazione diventa un vero impedimento ad ascoltare, ad aprire l’orecchio, e quindi a preservare quella libertà che viene solo dal rimanere nella verità. Essa non riguarda solo i grandi peccatori che vivono lontani da Dio e dalla fede ma può toccare anche la vita della persona religiosa. Significativamente il primo esorcismo del Vangelo di Marco avviene proprio in una sinagoga, nei confronti di una persona presumibilmente ignara di ogni problema e intenta ad assolvere il suo dovere religioso. L’indemoniato, in effetti, reagisce all’insegnamento di Gesù con un atteggiamento di apparente ossequio e devozione: tu sei il santo di Dio.

Il problema è che ciò che risulta da questo riconoscimento non è la volontà di agire e cambiare ma piuttosto una scusa per rimanere nella propria passività. Il demonio della sinagoga, infatti, vorrebbe tenerti prigioniero proprio a partire da una religiosità distorta, per la quale la parola di Dio non appartiene alla nostra realtà, al nostro mondo, ma ad una sorta di ordine superiore le cui esigenze schiacciano la nostra debolezza. Questa percezione si accompagna al sentimento della paura di un Dio la cui volontà farebbe violenza alla tua in quanto percepita come opposta ai tuoi desideri, contraria a tutto ciò che è “il piacere della vita”, sproporzionata rispetto alle tue forze.

Questa paura, invece di attivare la persona e metterla in cammino, genera semplicemente un atteggiamento di passività per cui puoi passare da una funzione religiosa all’altra, da un libro di spiritualità all’altro, ma senza mai agire su ciò che ascolti e che vivi, senza mai cambiare veramente qualcosa di quello che tu vivi.  La Parola non parla più con “autorità’” ma come ogni altra parola umana, non perché essa abbia perso la sua forza, ma perché noi abbiamo dimenticato che rimanere nella libertà dei figli di Dio esige un combattimento.  Ogni volta che viene annunciata la parola di Dio, allora, devi essere consapevole che nascerà un combattimento nel tuo cuore tra la chiamata a conversione e la paura e la pigrizia che invece ti paralizzano, ti legano alla tua natura disobbediente. La vittoria sta nella fede che ti porta a riconoscere nell’insegnamento di Gesù, non semplicemente un insegnamento umano ma l’autorità dello Spirito Santo che agisce nel tuo cuore nella misura del tuo desiderio di appartenere a Cristo e quindi di consegnargli la tua libertà.

Io vorrei che voi foste liberi, spiega San Paolo, da ciò che preoccupa inutilmente il vostro cuore, da ciò che lo divide o frammenta e da ciò che lo lega come un laccio o una trappola. Questo appesantimento, questa frammentazione e questa paralisi del cuore possono capitare a tutti coloro che cessano di combattere per la libertà del Vangelo e della vita nello Spirito. Magari conservano la loro religiosità ma si adattano completamente al mondo. Questo può essere particolarmente vero per gli sposati. Il matrimonio, infatti, per il quale uno consegna la propria libertà all’altro, chiama in causa in maniera più diretta il cuore delle persone e quindi la loro disponibilità reale a tenersi disponibili per il Signore, obbedienti a Dio per una libertà più grande. Idealmente gli sposi dovrebbero aiutarsi a cercare insieme la volontà di Dio, sapendo che amando innanzitutto il Signore alla fine si ameranno di più anche tra di loro. Nessuno dovrebbe amare un altro più di quanto ami Dio perché, se ami uno nella carne, dice Paolo, dalla carne riceverai tribolazioni e io vorrei risparmiarvele. Per rimanere liberi abbiamo tutti bisogno dell’autorità di Gesù che non è un’autorità che ti sottomette ma un’autorità che ti libera. Se la fede nell’autorità di Gesù può preservare la libertà nel matrimonio, allora essa può preservare anche la libertà anche in tutte le altre relazioni, sia quella con Dio che quella con il prossimo.