Domenica 21 gennaio 2024 – III/a

Il riferimento alla città di Ninive nel libro di Giona, una città pagana immensa, vasta tre giorni di cammino, e soprattutto una città che nell’immaginario di Israele richiama la corruzione, la violenza, la crudeltà, ricorda come, il destino dell’umanità, per quanto essa possa progredire, sarà sempre segnato dal mistero del male incombente. Non solo il male individuale ma anche il male sociale, come testimoniano i fatti di cronaca quotidiana. Nel contesto di questo quadro realisticamente negativo acquista una rilevanza particolare l’evento iniziale del Vangelo di Marco. Qui Gesù, passando per il mare di galilea, chiama a seguirlo un paio di persone semplici, normalmente impegnate nel loro lavoro quotidiano, per farli araldi di un messaggio che sfida direttamente proprio il mistero del male presente nel mondo. Come Gesù, essi devono annunciare la conversione e il fatto che, in questo mondo di male, il Regno di Dio si fa presente. L’invito di Gesù a divenire con Lui pescatori di uomini, del resto, suggerisce che questo regno non si propone esattamente come un miglioramento di questo mondo marcato dal male ma come un’alternativa ad esso. Pescare gli uomini implica tirarli fuori dal loro elemento vitale che per gli uomini è il mondo come il mare lo è per i pesci. Ma l’annuncio di questa possibilità di morire ad un modo di vivere apparentemente insostituibile implica necessariamente che proprio la morte non sia più la fine del mondo ma una via di uscita verso un’alternativa valida e migliore che in qualche modo diventa “vivibile” fin da ora. Il regno è vicino, proclama Gesù. Il tempo si è fatto breve, dirà San Paolo. Tre giorni ancora e Ninive sarà distrutta annuncia Giona. Significativamente tutti gli abitanti di Ninive credono a questo annuncio. Non tanto all’annuncio della distruzione della loro città, la qual cosa li avrebbe paralizzati. Quanto alla possibilità di vivere in un modo che possa piacere a Dio e quindi di cambiare il destino del loro mondo. Essi si vestono di sacco, digiunano, si coprono il capo di cenere e soprattutto smettono di compiere le opere cattive che compivano in precedenza. In un certo senso anticipano la loro morte, abbandonando il loro antico modo di vivere per cercare la volontà di Dio. L’esperienza del Regno di Dio ha come condizione, non delle strategie particolari, ma fondamentalmente la conversione del cuore, l’orientamento della volontà a Dio. Paolo descrive questa conversione del cuore quando spiega che l’amore, espresso dal prendere moglie o marito, il piangere e il gioire, il comperare e quindi il possedere e finalmente l’agire nel mondo non hanno più valore in se stessi ma solo in relazione al destino che Cristo ha inaugurato per l’umanità e per la storia. Chiunque fa uso del mondo, dunque, dovrebbe vivere come se non ne facesse pienamente uso, come se non ne cercasse alcun vantaggio, come uno che non reclama alcun diritto definitivo, non perché non ne abbia ma perché consapevole che la scena di questo mondo passa. Ciò non significa che le cose del mondo perdono di valore ma che al contrario esse vengono apprezzate, utilizzate o anche messe da parte, in relazione al valore vero e duraturo che esse acquistano rispetto al Regno di Dio. Il tempo si è contratto significa infatti che ciò che sarà ha già un’influenza su ciò che è. A condizione che uno creda all’opera di Dio che è sovrana rispetto all’opera del mondo. L’annuncio che il Regno di Dio è presente nel mondo ed ha precedenza su ogni altra realtà umana come la parola di Gesù aveva precedenza sulle attività e i legami dei primi discepoli, può sembrare improbabile, irrealistico, quasi improponibile. Come potevano i discepoli credere alla presenza del Regno di Dio nel mondo subito dopo l’arresto di Giovanni? Come hanno potuto i Niniviti credere alla scarna predicazione di Giona? O come poteva lo stesso Giona ed ogni pio israelita credere alla conversione di Ninive ricordando tutto il male che quella città aveva fatto loro? Vi è evidentemente una sproporzione tra l’annuncio della presenza del Regno e la realtà del mondo con tutta la sua negatività. Ma proprio per questo abbiamo bisogno di fidarci di qualcuno che conosca una realtà più profonda dell’evidenza superficiale e conosca il cammino verso di essa. Uno che possa dirci: seguimi.  Seguirlo non significa uscire dal mondo ma accettare di starci in un modo nuovo. Seguire Lui che passa nella nostra realtà quotidiana come passava all’inizio ed alla fine dell’attività lavorativa dei primi discepoli significa convertirsi e quindi accettare che nel nostro operare restiamo regolarmente disponibili a lasciarci interrompere, a lasciarci cambiare e a lasciarci condurre. Non c’è un atteggiamento esistenziale più utile di questo: credere che in un mondo apparentemente dominato dalle sole forze umane e dalla nostra iniziativa vi è una presenza che invita a seguirlo, a fidarsi di lui.