Domenica 5 novembre 2023 31/a
Il salmo 130 parla del credente come un bimbo svezzato in braccio a sua madre. Si tratta di uno dei 15 salmi ascensionali che ogni ebreo recitava mentre si approssimava al tempio durante l’annuale pellegrinaggio a Gerusalemme. Esso vorrebbe allora disporre il pellegrino, probabilmente affaticato dal lungo cammino già fatto, a vivere quella fatica non come una dimostrazione di resistenza ma piuttosto come un richiamo all’abbandono, al suo bisogno di appoggiarsi nuovamente con fiducia ed umiltà a Colui che si prende cura di tutti. Speri Israele nel Signore, conclude il salmo.
Vi è uno stridente contrasto tra questa immagine del bimbo in braccio a sua madre e quella usata da Gesù dei farisei seduti sulla sedia di Mosè. Noi tutti nella vita, no solo i farisei, siamo tentati di fare lo stesso cambio di posizione. Gesù in fondo sta parlando ai suoi discepoli e non ai farisei. Siamo tentati di abbandonare le braccia di Dio padre e madre e sederci sulla sedia di Mosè. Sedersi su questa sedia non significa soltanto assumere una posizione di insegnamento, che potrebbe anche essere legittima e necessaria. Ci sediamo sulla sedia di Mose quando consideriamo ciò che insegniamo non più come l’opera di Dio che mi ha salvato e mi sostiene ma come una mia conquista, che adesso mi autorizza a mettere in luce cosa tu non riesci a fare. Quando ci percepiamo come degli arrivati e non come dei bimbi portati in braccio nelle cose dello spirito. Quando pensiamo che siamo chiamati a dare il buon esempio o il buon consiglio, magari per essere “ammirati”, ma dimentichiamo che cosa significa dare la vita, cioè, soffrire un po’ per l’altro, come Paolo che dice: insieme al Vangelo avremmo voluto darvi la nostra stessa vita. Quando ci sediamo sulla sedia di Mosè è inevitabile che giudichiamo gli altri e quindi che ci facciamo giudici della legge stessa.
Non è sempre ovvio prendere coscienza di questo nostro atteggiamento giudicante. Noi giudichiamo quando pensiamo di essere un pochino migliori degli altri, quando li guardiamo dall’alto in basso con un sottile disprezzo, quando vogliamo dominare sugli altri o anche semplicemente “cambiarli” perché li consideriamo sbagliati o perché pensiamo di sapere meglio di altri in cosa consiste il retto vivere. Allora stiamo sempre lì a misurare cosa dovrebbe fare l’altro perché le cose vadano bene e non ci rendiamo conto che stiamo legando fardelli su di lui che noi stessi non ci preoccupiamo di toccare nemmeno con un dito. Il problema è che più uno è preoccupato di cosa dovrebbe fare l’altro meno si accorge di cosa dovrebbe fare lui stesso. Finché pensi che è l’altro che deve cambiare e soddisfare le tue attese, non farai nulla per migliorare te stesso. Giudichiamo quando fondamentalmente vogliamo dominare o manipolare invece che amare e servire.
Come è diverso l’atteggiamento di Paolo nei confronti dei Tessalonicesi: “siamo stati “amorevoli” come un madre. Eravamo preoccupati di non stancare. Non volevamo essere di peso e per questo lavoravamo giorno e notte. E voi avete compreso – continua Paolo – che tutto questo nostro fare, che non stancava noi e non stancava neppure voi, non era una forza che veniva da noi, ma il dono di quel Dio che ci sosteneva. E in effetti è proprio a partire da questo modo di amare che non si impone, non stanca, non forza il cammino dell’altro che i voi avete riconosciuto il dono di Dio in noi. Voi dunque avete accolto, conclude San Paolo, la nostra parola e la nostra testimonianza non come parola di uomini ma come essa è, cioè parola di Dio che opera, energizza, sostiene, trasforma coloro che credono. Paolo non ha fatto miracoli particolari e non aveva una retorica particolarmente brillante. Lavorava come tutti e parlava con la mitezza dei piccoli. Ma faceva tutto con la consapevolezza che il Vangelo di Dio passava proprio attraverso questa sua piccolezza. Il Vangelo di Dio, infatti, è fondamentalmente l’annuncio del Regno che si fa presente in mezzo a noi in particolare attraverso la resurrezione di Cristo.
Ciò che porta a riconoscere questa presenza non è l’eccezionalità del testimone. Molti hanno incontrato il Cristo nella carne senza esserne toccati. Ciò che ti porta ad accogliere il Vangelo di Dio è la fiducia che esso non è un peso ma una forza che tocca il cuore e sulla quale puoi appoggiarti, come il bimbo si appoggia a sua madre. La voce e l’opera di chi annuncia sono materiali ed umane ma la forza che opera in chi crede è quella dello Spirito Santo. Il Vangelo di Dio che ci ama si compie nella sua pienezza con il mistero Pasquale per il quale Cristo è in mezzo a noi ed in noi al punto che possiamo dire ormai che per me l’altro è Cristo. L’altro che mi parla e mi insegna è Cristo. Ma anche l’altro che mi ascolta e a cui insegno è Cristo. E se Cristo è tutto in tutti allora diventiamo tutti fratelli. È questo il richiamo di Dio in Malachia. Non avete un solo Padre? Non siate tutti fratelli? Ed è questo il richiamo di Gesù quando dice: non fatevi chiamare e non chiamate nessuno Rabbi, Padre o maestro. Una è la presenza che opera in chi crede: il Signore risorto che vive in mezzo a noi. Il padre che ama e sostiene tutti, anche i cattivi, perché comunque crescano nell’amore. Lo Spirito Santo che vive in noi e tutti chiama alla vita nuova in Cristo.