15 ottobre 2023 – XVIII/a

Molti sono chiamati ma pochi gli eletti. La conclusione del Vangelo appare un po’ paradossale se si considera che nella parabola del banchetto di nozze, dei moltissimi che vengono invitati uno soltanto ne viene escluso. Forse Gesù voleva suggerire che, anche se uno solo mancasse all’invito, gli eletti sarebbero ancora pochi; oppure, richiamandosi al generale rifiuto dei primi invitati, voleva sottolineare che vi è una scandalosa sproporzione tra la disponibilità di Dio a salvare tutti ed una sorta di connaturale resistenza del cuore umano a lasciarsi attrarre, a lasciarsi persuadere della necessita di una salvezza, e a lasciarsi nobilitare dall’opera della grazia che vorrebbe rivestirci con la gloria di un abito nuziale. Isaia, in tal senso, parlerà di Dio che deve strappare un velo dalla faccia di tutte le nazioni perché queste lo riconoscano come Colui che salva. Nella stessa linea Gesù racconta una parabola nella quale, da un lato Dio chiama ad una festa e ad un tempo di gioia, mentre dall’altro gli invitati non arrivano a riconoscere il carattere salvifico di tale invito. Di fatto gli invitati preferiscono il lavoro sicuramente più gravoso dei loro campi e dei loro affari a questo momento di festa e di gioia.

Inizialmente, anzi, essi non rispondono nemmeno all’invito. Semplicemente non vollero andare. Apparentemente il re pazienta a lungo in attesa di una risposta e solo all’ultimo minuto, quando ormai gli animali sono già uccisi e tutto è pronto, ancora ostinatamente fiducioso di un’adesione all’invito, si decide ad inviare frettolosamente altri servi per un secondo tentativo. La reazione degli invitati a questo secondo invito va dall’indifferenza più completa di coloro che non si curarono di nulla all’incomprensibile aggressività di coloro che maltrattano ed uccidono i servi del re. È ovvio il richiamo ad una visione autoreferenziale della vita in cui Dio è percepito come un intruso, una presenza inutile o addirittura ingombrante e in cui ciò che serve e conta sono soltanto i propri beni ed i propri affari. Questa visione è abbastanza diffusa, soprattutto nella società secolarizzata, in cui il fattore religioso è pregiudizialmente considerato inutile, fastidioso o addirittura in competizione con la libertà e l’iniziativa umana. E non ci si accorge che questo fattore viene troppo spesso ignorato o messo da parte senza averne veramente compreso il senso, senza averne conosciuto a fondo il contenuto e senza averne effettivamente verificata la capacità di incidere nella vita di ogni giorno e nella storia degli uomini.

La tragica fine della città insolente, più che sottolineare la severità del castigo vorrebbe per contrasto far percepire la stoltezza del rifiuto. Il Dio che ci invita al suo banchetto è un fuoco divorante che non si può disprezzare impunemente, soprattutto se si considera che questo Dio nulla desidera di più se non mettere il suo potere a servizio della nostra salvezza. Scrivendo ai filippesi Paolo potrà dire: “Tutto posso in colui che mi dà forza.” E’ la grazia di Dio che ci sostiene nella tribolazione, egli continua, ed è la grazia che ci allena a vivere in pienezza, sia nella privazione che nell’abbondanza. Abbiamo bisogno della grazia nella privazione perché essa ci dà la forza della sopportazione. Ma ne abbiamo bisogno anche nell’abbondanza perché essa custodisce il nostro cuore libero da falsi attaccamenti e disponibile ad accogliere i doni di Dio e in particolare il suo Spirito Santo. Nessuno sarebbe veramente degno di partecipare alla vita stessa di Dio se non viene in un certo senso “rivestito” da quella grazia che, ricchi o poveri, buoni o cattivi, sola è capace di elevarci gradualmente ad una gloria che supera le nostre possibilità o meriti. Il re della parabola, dunque, manda i servi ai crocicchi delle strade per invitare tutti, senza condizioni o riserve, cominciando addirittura dai cattivi e includendo naturalmente anche i buoni. Viene riaffermata l’universalità della salvezza, già annunciata da Isaia e il fatto che siamo salvati in comunione, come popolo, e non individualmente. Non di meno questa salvezza deve essere accolta personalmente e non collettivamente. In tal senso la parabola introduce l’immagine della veste nuziale. Per tutti essa era un dono visto che, trovandosi per strada, nessuno avrebbe potuto procurarsela da solo. L’unico che era senza, dunque, doveva averla rifiutata deliberatamente come inutile. Egli entra ugualmente, senza che nessuno se ne accorga. Evidentemente essa non era un rivestimento esteriore visibile. Se ne accorge solo il padrone che probabilmente e’ l’unico a vedere ciò che gli altri non vedono avendo una conoscenza personalissima di lui e delle sue disposizioni interiori. La sua “indegnità” è data dalla sua doppiezza, dall’inconsistenza tra la natura del suo cuore e i suoi comportamenti esteriori. Un’inconsistenza di cui lui stesso è consapevole visto che interpellato resta muto, cioè senza scuse. Un’inconsistenza di cui in fondo non riesce a pentirsi. Condannato, infatti, mentre piange non cessa di digrignare i denti. Il suo dolore, cioè non è associato alla compulsione, ma alla rabbia di chi presume di sé fino al punto di considerare ingiusto il proprio castigo. Come il ladrone impenitente sulla croce.