Domenica 20 novembre 2022 – 33/c

Sulla croce di Gesù vi era una scritta in evidenza: questo è il re dei giudei. Essa rimane lì silenziosa a testimoniare che ciò che per gli altri era occasione di derisione è invece una realtà fattuale. Sì, sulla croce si manifesta pienamente la regalità di Cristo, il suo essere al di sopra dei troni e delle dominazioni, per quanto questa regalità rimanga indecifrabile agli occhi del mondo. Il re, in una prospettiva di fede, non è colui che domina sulla tua libertà, ma colui al quale puoi affidarla perché egli la custodisca.

Tu cominci a desiderare un re quando ti accorgi che la tua libertà è importante e che tu non la possiedi totalmente. Il malfattore sembra l’unico ad accorgersi di aver bisogno di salvezza proprio perché si rende conto che l’ultima libertà che gli rimane è quella di affidarsi a qualcuno più forte della sua debolezza. E questo qualcuno lo trova non al di sopra della sua debolezza ma lì accanto a lui, in uno che condivide la sua debolezza da innocente, da libero, perché l’unica vera e grande libertà è quella dal male.

Le letture di questa domenica stabiliscono un parallelismo tra la figura di Davide e quella di Gesù. Davide, come riconoscono gli israeliti, anche mentre Saul era ancora il re d’Israele, già mostrava la sua regalità, entrando ed uscendo insieme al suo popolo, cioè condividendo con loro i rischi, le fatiche e il cammino e facendosi così custode della loro libertà. Essi riconoscono che l’autorità di Davide, anche quando era ancora senza potere, perseguitato da Saul, non era quella di dominare ma quella di generare e custodire la loro vita. Per questo dicono: noi siamo tue ossa e tua carne. Avrebbero potuto dire: tu sei nostre ossa e nostra carne, tu sei uno di noi, tu appartieni a noi. Invece dicono il contrario. Noi siamo tue ossa e tua carne: la tua regalità non viene dal nostro mandato ma dal fatto che, mettendo a rischio la tua vita, tu ci hai generato. Ed è proprio questo che il malfattore riconosce in Gesù. Pregandolo di ricordarsi di lui il malfattore afferma di essere sue ossa e sua carne, affida a Lui tutta la sua vita credendo che egli è abbastanza libero per salvare, non semplicemente la situazione, ma la sua persona.

Il malfattore ci ricorda che la nostra libertà comincia non dall’affermare noi stessi ma dal riconoscere il nostro peccato, la nostra debolezza, la nostra cattiveria o cattività che ci rende incapaci di libertà quindi di amore. Spesso noi vorremmo una salvezza differente da quella della Croce. Una salvezza basata su una forza che ci libera dai problemi e non dal peccato. La salvezza che Gesù ci offre non è la soluzione ai nostri problemi ma la guarigione del nostro male che è la nostra libertà ferita. Solo per la guarigione della sua libertà ferita, accecata e imprigionata dal male, dal rancore, dalla tristezza, dall’invidia l’uomo ridiventa capace di amare nello Spirito Santo, capace di amare con una libertà più forte della sofferenza.

Il confronto tra i due malfattori è in fondo il confronto tra una libertà ancora prigioniera del suo male, piena di pretese, di rivendicazione, di rabbia ed una libertà che invece, essendosi affidata al suo re, ritrova già coraggio, attenzione alle persone, sollecitudine non più solo per sé stessi ma anche per gli altri. Nessuno, tuttavia, può conseguire tale salvezza da sé stesso. Sulla croce Colui che è l’icona del Dio invisibile, colui che rende visibile l’amore di Dio, incontra l’uomo che pecca per dirgli: io sono qui per te. Colui che possiede in sé la pienezza della divinità avvicina la sua pienezza al vuoto del nostro peccato per riempirlo di misericordia. Ha riconciliato tutte le cose – dice Paolo – e ha rappacificato il cielo con la terra. E quando l’uomo peccatore si accorge di questa presenza, proprio laddove egli ha peccato, e si abbandona alla sua misericordia proprio allora colui che è icona del Dio invisibile può dirgli: oggi, tu sarai con me in paradiso.

Quest’oggi, direbbe San Paolo, non riguarda solo il buon ladrone ma tutti noi perché con la resurrezione Gesù ha unito il suo corpo risorto a quel corpo storicamente ancora fragile e sofferente che è la chiesa. È lui il capo del corpo che è la chiesa. Già oggi possiamo dire che ci ha strappati dalle tenebre del peccato per trasferirci nel suo Regno di luce perché ogni giorno egli “entra ed esce con noi” come Davide. Il paradiso, in fondo, non è semplicemente il luogo dell’aldilà, ma più profondamente il luogo di quella comunione tra il Dio creatore e l’uomo ancora innocente descritta nella genesi. L’uomo non più innocente ma peccatore ritrova sulla croce questa comunione perduta. Sulla croce, infatti, il primogenito della creazione e dei risorti proclama ad ogni uomo lo stesso canto che Adamo rivolgeva ad Eva: tu sei ossa delle mie ossa. Ad esso, in ogni eucaristia, fa riscontro da parte della chiesa il canto un tempo rivolto a Davide: noi siamo ossa delle tue ossa. Noi siamo tuo corpo e tu sei nostro capo.