Limone 6 novembre 2022 – XXXII/c

La Parola di questa domenica ci presenta due storie parallele. Da un lato vi sono 7 fratelli che cercano inutilmente di “risuscitare” una discendenza alla vedova di uno di loro e dall’altro vi è una madre vedova e i suoi 7 figli che unanimemente non esitano a perdere le loro vite nella speranza che sarà Dio un giorno a risuscitarle. I due gruppi rappresentano in un certo senso due popoli o due mentalità che si contraddicono: chi rinuncia alla speranza “grande” della resurrezione, infatti, deve necessariamente rimpicciolire le sue speranze terrene e venire a patti con la morte. Come l’adolescente che arriva a giustificare comportamenti autodistruttivi dicendo: tanto devo morire. Oppure come quando, sempre più facilmente, nel campo della medicina si rinuncia a “curare la vita” e si preferisce anticipare la morte.

Questa mentalità di morte è subdola e penetra perfino nell’animo “religioso”. I sadducei, che pure nutrivano interessi “religiosi”, non solo “contraddicono” la speranza nella resurrezione, ma vogliono ridicolizzarla, proponendo a Gesù di giustificare una situazione paradossale e quasi “assurda”. C’è un modo di pensare, anche nelle persone religiose, che sembra “razionale” perché considera solo ciò che è “al di qua della morte” per il quale ogni discorso circa realtà che non possono essere misurate con criteri sperimentali, quali la vita eterna, la resurrezione dei morti, il paradiso acquista il sapore di una favoletta per bambini o per illusi e viene superficialmente scartato se non addirittura percepito con fastidio.

Eppure, il Figlio dell’uomo, che per noi è morto ed è risorto, parla con estrema chiarezza e serietà di queste realtà nel suo vangelo. Vi sono quelli preoccupati di vivere la loro vita in “questo mondo” soltanto; vi sono altri che in questo mondo cercano di vivere in maniera degna di “un altro mondo” in cui credono e sperano. Vi è questo mondo in cui la vita deve essere generata in quanto mortale; ma vi è anche un altro mondo in cui la vita non ha più bisogno di essere generata in quanto eterna, non nel senso banale di lunghissima, ma nel senso più proprio di permanente, compiuta, stabile. Vi è una condizione di vita terrena naturale e vi è una condizione di vita celeste, in cui saremo come angeli.

Gesù parla di queste cose con naturalezza, con fermezza anche, proprio perché questa speranza per Lui non è un’illusione ma una realtà. Paolo chiama questa “cosa reale” una speranza buona, dove per buona si intende non una speranza “bellina” ma una speranza solida, valida, virtuosa. Virtuosa perché essa, continua Paolo, non manda in stand-by la vita terrena, ma al contrario la vitalizza rafforzando il nostro cuore in modo da renderlo capace di “ogni opera e parola di bene”. La speranza nella resurrezione, cioè, spinge al bene e rende audaci di fronte a quelle situazioni che invece vorrebbero intimidire la tua libertà di fronte a qualsiasi imperatore ingiusto, come nel libro dei Maccabei, oppure, direbbe San Paolo, di fronte agli uomini “cattivi”, che sostituiscono la legge di Dio che è la legge per il bene con l’arbitrarietà delle leggi del più forte o delle maggioranze del momento. Certo anche chi non crede nella resurrezione potrebbe accettare di lottare e anche morire, più o meno gloriosamente, per la libertà e la giustizia ma difficilmente chi non ha la speranza nella resurrezione può accettare di morire a sé stesso nelle circostanze quotidiane meno eroiche, dove l’amore di Dio, conclude San Paolo, si esprime come “la pazienza di Cristo”, con la disponibilità cioè a fare della propria vita un dono anche nel quotidiano, anche di fronte al peccatore ed al nemico.

Senza “una speranza” oltre questa vita facilmente ti abitui a pensare che in fondo la morte non è solo la fine della vita ma anche il suo fine. Se guardassimo attentamente e senza preconcetti razionalistici all’esperienza di ogni giorno riconosceremmo mille segni del fatto che la vita è un miracolo e che essa è possibile perché, anche se fragile e precaria, essa è abitata, come il roveto di Mose, da un fuoco che invece di consumarla la valorizza. Cosa è stata la vita di Abramo, Isacco e Giacobbe? Un respiro che poteva perdersi nell’oscurità dei secoli. E invece essa – anche nell’esilio, nella sterilita, nelle contraddizioni della storia – è stata sostenuta dalla speranza della resurrezione e per questa fede essa rimane nel ricordo di Dio e quindi nella vita stessa di Dio perché la memoria di Dio non è memoria del passato ma di ciò che vive per Lui. Tutti viviamo per Dio, anche se non tutti se ne accorgono perché “le fede non è di tutti. C’è qualcosa in ogni vita, qualcosa nel nostro io, che non può svanire con la morte perché non può ridursi alla materia, come il fuoco del roveto non poteva ridursi al legno su cui bruciava senza del resto consumarlo. Quel qualcosa è già la vita di Dio in noi. Essa non termina con la morte ma ci genera a vita eterna: siamo figli della resurrezione e non della carne soltanto.