Lc.9,28-36    La Trasfigurazione  II  Quaresima anno C

Continuiamo il nostro cammino quaresimale. Dopo le tentazioni, un barlume di speranza che ci permette di intravedere la meta alla quale siamo diretti.
Il racconto della trasfigurazione è pieno di luce, ma anche pieno di mistero. Le domande che emergono sono tante. La prima, ad esempio, riguarda la trasfigurazione stessa, perché non ci dice in cosa propriamente consiste. È un cambiamento, una trasformazione: “il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste candida e sfolgorante”. Nella Bibbia, la veste indica l’identità di una persona. Il bianco è simbolo della condizione divina. Inoltre il bianco è il colore della luce. Dio è luce (1Gv.1,5), la luce è il vestito di Dio. Nella trasfigurazione Gesù diventa un corpo di luce. Dopo la risurrezione Gesù apparirà vestito di bianco. Il nostro corpo non è luce, ha bisogno si essere illuminato. Ma, per fede, sappiamo che saremo ri-vestiti di luce divina, quando saremo nella Gloria di Dio.
Luca ci dice che non è Gesù che si trasfigura, ma è lo sguardo dei discepoli che, sebbene da tempo lo conoscono, si fermano a guardarlo con più attenzione, a comprendere meglio chi sia davvero.
Altra domanda che emerge dal testo: “Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia”. Come hanno fatto a riconoscerli? A quel tempo non esistevano fotografie per individuarli e tanto meno i due personaggi si sono presentati, come facciamo noi, di solito, con gli sconosciuti. Infatti “conversavano” con Gesù, non hanno rivolto parola ai discepoli. Con quale corpo sono apparsi, considerato che potevano anche parlare? L’evangelista Luca non ci offre risposte alle nostre domande, ma ci aiuta a comprendere il senso della presenza di Mosè ed Elia. Rappresentano la Legge ed i Profeti, quindi tutto l’A.T. Gesù è l’adempimento dell’A.T. La presenza di Mosè ed Elia ci ricorda che non è possibile capire e conoscere Gesù, se non tenendo conto l’intera storia della salvezza e del popolo ebraico. Gesù, senza l’A.T., sarebbe incomprensibile e l’A.T. trova in Gesù la sua chiave di lettura. Gesù non si è mai proclamato Messia. La presenza di Mosè ed Elia conferma che lo è.
La liturgia ha omesso dal testo la frase iniziale, che offre le coordinate temporali: “Circa otto giorni dopo questi discorsi”. Si riferisce a ciò che è successo a Cesarea di Filippo, quando Gesù chiede cosa pensa la gente e, ai suoi discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?” (9,20). Sappiamo che Pietro risponde a nome di tutti, ma la sua risposta non era del tutto corretta.
Dopo otto giorno, ecco la risposta attraverso la trasfigurazione di Gesù. Mosè ed Elia hanno testimoniato che Gesù è il compimento dell’A.T. La voce, uscita dalla nuvola, testimonia e dichiara: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”. La nube nell’A.T. simboleggia la presenza potente e nascosta di Dio, che guida e protegge con la sua ombra. Essa aveva accompagnato Israele nel deserto (Es 14,19), era scesa sul monte Sinai rivelando la presenza della gloria di Dio (Es 24,15-18), avvolgeva la tenda del convegno (Es 40,34-35), invadeva il tempio (1Re 8,10-12).
Durante il battesimo, la stessa voce era rivolta direttamente a Gesù. Qui invece la voce si rivolge ai discepoli, a tutti noi.
Luca ci dice che Gesù “prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo”. Solo tre apostoli, non tutto il gruppo. Essi sono coloro che fanno più resistenza al messaggio della croce. Anche noi dovremmo imparare a lasciarci condurre per mano da Gesù, là dove vuole svelarci il volto del Padre.
Gesù sale sul monte a pregare. Nella Bibbia, il monte simboleggia la stabilità, la potenza di Dio e il modo per avvicinarsi a Lui. Nella Bibbia vi sono monti privilegiati dove Dio si è manifestato: Sinai, Carmelo, Oreb, Sion e Tabor.
Gesù certamente intuiva ciò che gli sarebbe successo durante la preghiera. Quindi avrebbe potuto approfittare di questa occasione per far propaganda di sé, per il suo movimento. Il suo corpo rivestito di luce, vestito di Dio, sarebbe stata una evidente manifestazione della sua identità per tutto il popolo d’Israele, incluso le autorità religiose. Invece evita il clamore, il successo, perché la fede non è spettacolo, teatro.
Pietro interviene: “Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende…”. Vuole prolungare nel tempo questa esperienza, questo momento magico, bello, cioè di vedere Gesù vestito di Dio. Ma, allo stesso tempo, Pietro sembra impedire a Gesù di incamminarsi verso la passione, croce e morte, come aveva fatto otto giorni prima. Quindi continua a pensare che il Calvario non sia necessario. Inoltre, godendo quel momento di luce e gioia, non vorrebbe tornare alle preoccupazioni delle vita quotidiana, affrontare i problemi della storia.
Anche noi possiamo avere la tentazione di costruire la nostra tenda e installarci pacificamente (qualche preghiera, una messa, altri sacramenti ogni tanto…). Certamente anche Gesù avrebbe preferito rimanere ricoperto di una veste candida e sfolgorante e farsi una sua tenda, ma aveva un impegno con suo Padre e con noi uomini: scenderà dal monte e si dirigerà a Gerusalemme, un cammino con varie prove: tristezza nell’orto degli Ulivi; il tradimento di Giuda, la negazione di Pietro e allontanamento degli altri discepoli; la flagellazione, insulto e la crocifissione; il silenzio di Dio.
Quanto sarà durata la trasfigurazione? Forse un istante, pochi minuti. Così anche nella nostra vita: abbiamo intuizioni, momenti intensi della presenza di Dio, come se fossero dei flash di Dio. Non si ripetono continuamente, ma incidono sulla nostra vita (come l’unica caduta da cavallo di S. Paolo). Infatti la trasfigurazione è avvenuta una sola volta, anche per Gesù.
Gesù, ha vissuto la nostra stessa condizione umana, tranne il peccato, dalla nascita alla morte. Era un uomo come noi. Però nella trasfigurazione appare un Gesù diverso, vestito di luce, la sua divinità.
Con questa scena, l’evangelista Luca ha cercato di rafforzare la fede dei cristiani della sua comunità, soprattutto nei momenti difficili e di croce nel praticare il Vangelo. Anche Gesù, durante tutta la passione, si è fidato del Padre. Quindi la fede non è una specie di “assicurazione o di ombrello” che ci ripara dalle difficoltà, dalle prove, dalle croci che incontriamo nelle nostre situazione di “Gerusalemme” o di altre spiacevoli evenienze della vita quotidiana. La nostra vita, con le sue fatiche, ferite, cadute, fragilità, contraddizioni, spesso di rende dei “sfigurati”. Gesù invece ci assicura che siamo in cammino verso la trasfigurazione di noi stessi. Siamo attesi da Dio per essere vestiti di luce.
Il nostro corpo non va verso lo sfacimento, ma verso una trasfigurazione..

Approfondimento

Limone 11 marzo 2022 – Quaresima II/c
In prossimità della sua passione Gesù conduce tre dei suoi discepoli sul monte per mostrare loro qualcosa in più del mistero della sua persona. Questa rivelazione introduce una categoria nuova nell’esperienza umana: quella cioè della vita eterna, non come qualcosa che ci aspetta ma qualcosa che ci abita, come la luce della trasfigurazione abitava l’umanità di Gesù. I discepoli lo vedono per un istante oltre i confini del tempo perché parla con Mose ed Elia ed oltre i confini dello spazio poiché non vi sono tende da costruire per abitarvi. Poi, nell’oscurità della nube che adombra i presenti e che rappresenta la nostra condizione quotidiana di persone che camminano nella fede e non nella visione gloriosa, tutto viene riassorbito dalla sua umanità. Alla fine, non resta che Gesù e Gesù solo. Quel Gesù che mangiava e dormiva e si stancava come tutti. Questa vita eterna che abita la persona di Gesù resta quindi nascosta dietro la sua umanità ma non resta inefficace. Il volto trasfigurato di Gesù e la luce del corpo che traspare dai suoi abiti esprime il fatto che questa gloria nascosta nella sua umanità ha il potere – direbbe San Paolo – di sottomettere a sé tutte le cose; quindi, anche ciò che noi sperimentiamo come insuperabile: la morte certo, ma in fondo anche tutto ciò che riconosciamo come freno, catena, fallimento, nella nostra personalità interiore. Spesso facciamo fatica ad amare ed accettare noi stessi e gli altri perché in fondo ci percepiamo in un processo di decadimento e non di trasfigurazione. Nonostante tutti i nostri sforzi per realizzare qualcosa nella vita e in noi stessi ci percepiremo sempre inadeguati perché non capiamo che il nostro valore ed il nostro destino non sono nelle nostre realizzazioni visibili ma in un di più che ci raggiunge come dono. Paradossalmente è proprio quando siamo delusi dalla vita e da noi stessi che cominciamo a cercare qualcosa d’altro. Così appunto prega il salmista nella sua miseria prega: il mio cuore ripete il tuo invito: “cercate il mio volto”. Ed io Signore cerco il tuo volto. Chi può cercare un volto se non qualcuno che in esso può riconoscersi? Che può trovare in quel volto una corrispondenza?

Ci aiuta a capirlo anche l’esperienza di Abramo che verso la fine della sua vita prega sconsolato: “Signore mio che mi darai”. Dio lo tira fuori dalla sua tenda e gli fa la promessa di una discendenza e di una terra, cioè di una vita che dura nel tempo e nello spazio. La promessa può sembrare astratta ma il punto è che non c’è niente di meno della vita eterna che può soddisfare il nostro cuore. Noi al massimo possiamo costruire tende come Pietro sul monte Tabor, come Abramo nel suo pellegrinaggio. Dio ci tira fuori dalle nostre tende e dai nostri soffitti per darci un cielo non solo da guardare ma da abitare. Credere a questa promessa significa accogliere quella luce che traspariva dal volto di Gesù per lasciare che essa trasfiguri il nostro volto, cioè cambi la nostra identità profonda, interiore, restituendoci la somiglianza con Dio che ci è stata promessa fin dalla creazione. Noi non sappiamo quanto siamo belli, preziosi. Questo rimettersi in cammino, credere nella nostra possibilità nascosta di diventare migliori, aprirsi alla possibilità di superare tutto ciò che in fondo sappiamo ci abbruttisce, ci invecchia dentro, ci spinge al vuoto ed alla delusione, non è una cosa banale. È un vero esodo, un passaggio faticoso e doloroso da una situazione di schiavitù ad una di libertà. La voce che dalla nube invita a dare ascolto a Gesù, a fidarsi di lui, ci invita ad andare oltre le nostre paure. Ci rassicura che il cammino è aperto. Il rischio non è tanto quello di non riuscire a superare gli ostacoli. Il rischio è che smettiamo di credere all’assoluta necessita di compiere questo esodo. Se Paolo deve ripeterlo e deve ripeterlo con le lacrime agli occhi significa che quotidianamente rischiamo di rientrare nella nostra tenda e smettere di guardare le stelle e significa che questo ritorno è pericolosissimo: la nostra corruzione non comincia nella tomba, bensì quando smettiamo di credere alla vita eterna. Allora cominciamo a vivere nell’orizzonte ristretto del nostro io, dei nostri calcoli ed interessi, ci accontentiamo di soddisfazioni temporanee, del nostro comodo e finiamo – dice Paolo – per fare del nostro ventre il nostro idolo. Di vivere sottomessi alla nostra miseria, alla pigrizia, all’abitudine, al continuo ritorno su sé stessi. La quaresima è la grazia di rimettersi in una condizione di esodo. La nostra cittadinanza è nei cieli dice Paolo. Da un lato ciò implica che su questa terra possiamo amare “anche al buio” cioè senza troppi calcoli, sicurezze e interessi terreni. Dall’altro ciò implica che la prospettiva del nostro amore assume una dimensione universale. Chi accoglie con gratitudine il dono di una cittadinanza nei cieli non nega a nessuno cittadinanza nel proprio cuore e nella propria tenda e giorno per giorno costruisce “quell’amicizia sociale” per la quale “tutti” sono davvero fratelli, tanti e incalcolabili come le stelle del cielo.