Lc.6,17.20-26  VI Dom. Anno C
Gesù, dopo aver scelto i Dodici sul monte, scende con loro verso un luogo pianeggiante, dove si trova una gran folla di discepoli e “un gran moltitudine di gente” proveniente da diversi luoghi. Tutti volevano toccarlo, sentirlo vicino. Quindi sembra che Gesù discenda dal monte per farsi vicino a quelle persone, alle loro storie intrise di povertà, malattia, mancanze e bisogni.
Luca riporta il primo discorso di Gesù, rivolto innanzitutto ai suoi discepoli e in sintonia con l’autopresentazione fatta nella sinagoga di Nazareth: “Lo Spirito del Signore… mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri”.  Si tratta di quattro beatitudini in contrapposizione a quattro “guai”.
Ciascuno di noi può vivere nella benedizione o nella maledizione. Come i discepoli a cui Gesù si rivolge, anche noi siamo invitati a fare una scelta di vita, perché possiamo pensare di seguire Gesù, ma percorrendo un cammino sbagliato. Possiamo assumere uno stile di vita secondo il vangelo o secondo la mentalità di questo mondo; confidare in Dio o nell’uomo. Gesù dirà che non si può servire a due padroni: Dio o le ricchezze (Lc.16,13). A Gesù non interessa discepoli perfetti, ma, anche se fragili, sinceramente disponibili a seguirlo e collaborare con Lui.
I poveri sono coloro che, come Lazzaro (Lc.16,20-22) o la povera vedova (Lc.21,3), hanno posto la loro fiducia in Dio. Nella Bibbia, il povero è colui che cerca rifugio, sicurezza e speranza di salvezza solo in Dio, indipendentemente dalle sue condizioni economiche. Quindi non è un peccato o maledizione essere ricchi, sazi o lieti, ma lo è quando si pone nella “carne” la propria sicurezza, la propria felicità. Il ricco, il sazio, gaudente è colui che pensa di non aver bisogno di nulla, che si sente a posto, che accumula beni, pensando che tutto ciò gli diano la salvezza.
Il vero povero è Cristo. Lui andava i banchetti, entrava nelle case dei ricchi, mangiava con i peccatori, faceva festa, ma soffrirà una morte ingiusta, senza ricorrere a una difesa umana, ponendo invece tutta la sua speranza nel Padre.
Le parole di Gesù sono dirette a quella gente che piangeva, ai poveri, agli insultati e rifiutati. Loro sono beati non a causa della condizione di miseria o di malattia in cui versano, ma nel fatto che Dio aveva scelto di occuparsi di loro, prima che di altri. Il regno è dei poveri perché Dio sta con loro.
Logicamente Gesù non proclama “beati”, cioè felici, i poveri per essere poveri, non annuncia la povertà come un ideale di vita. La povertà non fa felici nessuno.
La povertà non può essere ridotta solo a una condizione sociale. I poveri non sono coloro a cui manca il pane, il tetto o le cose materiali. La povertà è la condizione esistenziale di ogni uomo/donna. Possiamo dire che riguarda tutti noi. Possiamo accorgerci di essere poveri quando ci scontriamo con i nostri limiti, le nostre incapacità di potere fare tutto con le nostre forze, salute, mezzi, motivazioni. Se capisco di essere povero ho bisogno di Dio e degli altri.
Quindi il povero è colui che è cosciente di avere bisogno, mentre il ricco è colui che pensa che sono gli altri ad aver bisogno di lui. Noi non abbiamo bisogno soltanto di essere nutriti materialmente o aiutati a superare i momenti di difficoltà, ma anche la necessità di sapere chi siamo e di conoscere la verità su di noi stessi, sulla nostra dignità.
Il povero colui che “no ha e non è”, cioè l’uomo che per  necessità,  fame,  emarginazione ha perso la possibilità di realizzare il progetto o la vocazione che Dio ha pensato per lui, affinché possa sentirsi felice. Sono tutti coloro che sentono la propria vita schiacciata e inutile per la povertà materiale, per la malattia fisica, per la violenza, l’ignoranza, per il disprezzo sociale, culturale, economico, per la discriminazione sotto ogni tipo di forma, per le ingiustizie. Si tratta di persone che nella società soffrono di privazione di mezzi, di peso sociale o politico per poter far valere i propri diritti, privazioni di onore, considerazione, stima.
Dio si fa vicino a noi nella nostra consapevolezza dei bisogni, delle nostre mancanze.
Infatti, nei vangeli troviamo tanti mendicanti, a volte, anche ricchi. Mendicante è Giairo, capo della sinagoga, che chiede a Gesù di sanare la sua figlia. Giairo incontra Gesù, non nel suo ruolo, nella sua posizione sociale, ma nel suo bisogno, nella sua disperazione di perdere la propria figli (Mc.5,21-42; Lc.8,40-56). Mendicante è la emorroissa, che ha speso i suoi averi per curare quella malattia che la tormentava da 12 anni, visitando vari medici. In quella condizione di povertà incontra Gesù, che non solo la guarisce dalla sua malattia, ma la salva (Mc.5,25: Lc,8,43-48), dandogli dignità e speranza. Mendicante è il giovane ricco (Mc.10,17-27; Lc.18,18-30), che, nonostante la sua religiosità e ricchezza, si accorge che gli manca qualcosa per essere felice. Gesù non lo invita a “fare” qualcosa in più per essere felice, ma di vendere tutto quello che ha in favore ai poveri. Il giovane ricco se ne andò triste. Era convinto di potere essere felice solo con quello che ha e fa. Per Gesù, non saranno mai i beni materiali a renderci felici, ma qualcuno a cui affidare la vita (= vendere tutto). Così, quando facciamo la carità ai poveri, non basta offrire beni materiali, occorre che i poveri incontrino qualcuno nella loro vita. Quel qualcuno (cioè ciascuno di noi) è la più alta forma di carità: non dare cose, ma se stessi, come ha fatto Gesù con noi. Carità significa “esserci” nella vita delle persone.
I “guai” (“beatitudini capovolte”) non sono una minaccia, una maledizione divina, ma un lamento funebre, degli ammonimenti rivolti ai ricchi, sazi, gaudenti affinché operino un cambio, una conversione e sappiano condividere i beni che hanno. Il Regno di Dio è annunciato pure a loro, ma si sentono così autosufficienti e sicuri delle loro ricchezze, che oltre a chiudere il cuore al fratello necessitato, bloccano ogni tipo di rapporto con Dio.
Se la ricchezza riempie la nostra mente, il nostro cuore, non ci sarà spazio per Dio, né per l’altro.
Nei vangeli troviamo alcune parabole che ci avvertono del pericolo dell’attaccamento alle ricchezze: il ricco gaudente e Lazzaro (Lc.16,19-31): l’abisso che li separa in vita continua oltre la morte, dove la situazione è rovesciata; il ricco e stolto latifondista (Lc.12,13-21), chiuso nel proprio successo economico, considerandolo il fondamento della sua vita; il fattore infedele (Lc.16,1-8): invito a condividere la ricchezza disonesta. Possiamo aggiungere il Magnificat: “Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc.1,53). I “guai” di Gesù sono richiami a ciascuno di noi quando, nella nostra vita, diamo troppo spazio all’IO e non a Dio.
Anche se Gesù, attraverso questo suo primo discorso, fa una proposta inconsueta e folle per attirare seguaci, cioè costruire una Chiesa basata sulle beatitudini, contrarie alla logica umana di questo mondo, in effetti ci racconta chi è Dio e che possiamo essere felici se ci riconosciamo bisognosi davanti a Dio.
Lui ci invita ad assumere le sue stesse scelte nella nostra vita, il suo stesso stile di vita. Il suo discorso consiste in 4 beatitudini e 4 ammonizioni: non ci sono scappatoie, altre alternative.
Tocca a noi fare la scelta: essere beati o stolti.

Approfondimento
Limone 13 febbraio 2022 – VI / C
Una folla numerosa ed eterogenea si avvicina a Gesù con bisogni ed attese di ogni tipo. Alcuni cercavano la guarigione del corpo, altri una liberazione spirituale. Tutti trovavano in Gesù un sollievo per la loro persona e la loro vita e quindi in principio tutti avrebbero potuto sentirsi attratti e definitivamente conquistati dalla sua presenza. Eppure, proprio in questo momento di grande successo di pubblico, Gesù fa un discorso che mette in luce un’ineliminabile antinomia tra la vita che tutti sognano e la novità di vita che Egli propone ai suoi discepoli. L’opposizione tra le quattro beatitudini ed i quattro guai descritta da Gesù non è un’opposizione di classi o di categorie di persone ma di mentalità e di approccio alla realtà che può alternatamente esprimersi nel cuore e nella vita di ciascuno di noi, se non ci lasciamo costantemente richiamare dal Vangelo. Per questo Paolo deve tristemente rimproverare i cristiani di Corinto: come mai alcuni di voi dicono che i morti non risorgono? Non è innanzitutto questione di credere se Cristo sia risorto o meno, ma piuttosto se noi che crediamo in lui risorgiamo oppure no. Credere che noi tutti risorgiamo, infatti, significa credere che noi fin da ora siamo fatti per qualcosa di più che non la sopravvivenza o fosse anche la soddisfazione dei bisogni più immediati della nostra vita. Se anche noi risorgiamo l’orizzonte della nostra vita e quindi di ogni nostra motivazione si sposta verso l’infinito. Non semplicemente l’immortalità, cioè il prolungamento di questa vita, ma verso una pienezza di vita che prima non avevamo e che fin da ora chiamiamo e sperimentiamo come vita eterna. Paolo insiste su questo punto: se noi abbiamo creduto in Cristo soltanto in questa vita, cioè se la nostra fede non aggiunge nulla ad una vita come quella di tutti, anche decente, siamo da commiserare più di tutti, perché una vita costruita sul nulla è sprecata, non è vissuta. Il discorso di Gesù allora mette in luce proprio il plusvalore di vita che Egli ha introdotto nel tempo e nella storia con la sua resurrezione rispetto alla nostra tendenza a considerare vita solo ciò che noi sperimentiamo come “soddisfazione”: la sazietà del corpo, l’euforia di chi ride e crede di aver messo a tacere ogni bisogno emotivo, la tranquillità di chi può soddisfare ogni bisogno materiale con i soldi, la falsa sicurezza di chi ha un posto al sole nella società e si sente approvato dagli altri. Queste cose possono anche essere buone o utili. Non di meno esse di rivelano inadeguate, instabili e perfino illusorie se uno non apre gli occhi sul fatto che esiste una vita “abbondante” che non sgorga dalle circostanze esterne ma dal dono di Dio e che si manifesta laddove l’uomo cessa di appoggiarsi solo a sé stesso e si assume il rischio di appoggiarsi a Dio. Questo rischio di credere implica due cose: che la resurrezione di Gesù non sia un’opinione, un’ipotesi, un mito … ma semplicemente un dato di fatto, un evento accaduto. E che questo evento è efficace per noi tutti, per coloro che credono in Lui, ma fondamentalmente per tutti gli uomini. Perché è un uomo colui che è risorto: con unghie, capelli e ombelico.  Uno, insomma, che avendo accolto la nostra vita umana nella sua carne, strappata alla nascita da quella si sua madre, l’ha risuscitata perché tutta la vita umana si apra a quella eterna. Beati allora non sono quelli che stanno bene su questa terra ma quelli che risorgono. Non semplicemente quelli che un giorno risorgeranno. Essi allora non saranno semplicemente beati ma gloriosi. Beati sono quelli che oggi, credendo a Gesù Cristo si fidano di lui non solo nel bene ma anche nel male e con Lui sperimentano come la sua vita risorta li sostiene nelle situazioni “difficili” e li illumina nelle situazioni “facili” perché non rischino di appoggiarsi solo a ciò potrebbe restringere i desideri, circoscrivere gli interessi, anestetizzare il cuore. Geremia esprime bene questo restringimento dello sguardo e dell’orizzonte di chi non si affida ad altro che alle sue forze ed ai suoi mezzi quando dice che l’empio è come un arbusto di poca durata che “non vede il bene che viene”. Al contrario del giusto che è come un albero duraturo e generativo che “non teme il male che viene”. La provocazione di Achille Lauro che si è battezzato da sé durante un’esibizione descrive al contempo un’illusione ed una nostalgia tipica della società post-cristiana. L’illusione è che la vita possiamo darcela da noi stessi e salvarla con i nostri sforzi. La nostalgia è che, questa stessa vita, anche quella luccicante di un cantante, che pure resta precaria, ambigua, spesso ferita, possa un giorno davvero trovare una sua purificazione, una sua pienezza in qualcosa di semplice come l’acqua del battesimo, che ora a molti appare solo un ‘simbolismo” senza efficacia reale … a meno che non sia tutto vero, fattuale, concreto: che Gesù è risorto e nel battesimo ci fa già partecipare alla sua vita risorta.