IV Avvento anno C
Il vangelo di oggi che la Liturgia propone, ci orienta, ci introduce nel cuore del mistero che fra poco celebreremo: Dio che si fa carne, che viene ad abitare tra noi e nella nostra storia. La sua non è una visita di cortesia, ma vuole mettere la sua tenda definitivamente in mezzo a noi. La presenza di Dio, che vive in Maria, si mette in cammino per venire al nostro incontro, per visitarci e redimerci.
Infatti la II° lettura ci permette di congiungere il Mistero dell’Incarnazione (“un corpo invece mi hai preparato… Ecco io vengo per fare la tua volontà”) con il Mistero Pasquale di morte e risurrezione del Messia.
La I° lettura profetizza Betlemme come il villaggio di Giuda dove la Vergine darà a luce il suo bambino: “E tu, Betlemme di Efrata (…) da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele”. Dal giorno in cui fu pronunciata questa profezia, tutti i giudei erano in attesa.
Se la I° lettura ci presenta la promessa fatta da Dio al suo popolo, il Vangelo ci presenta il compimento delle parole di Michea: Elisabetta annunzia, piena di Spirito Santo, la presenza del Signore nel grembo di Maria: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo. A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?” (Lc 1,42s). Il Signore è stato fedele alle sue promesse. Il Messia è giunto.
Il racconto della visitazione è intessuto di citazioni dell’AT che ci permettono di coglierne meglio la figura e l’iniziativa di Maria.
Quando l’angelo visitò Maria, gli disse “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” (Lc.1,34). Per un ebreo devoto è un’immagine familiare: durante l’esperienza di Israele nel deserto, Dio si stabilisce in una tenda per rendersi più vicino al suo popolo. Era la tenda del convegno, una specie di tempio portatile, dove c’era l’Arca dell’Alleanza,  una cassa di legno che conteneva le tavole della Legge, un vaso di manna, e il bastone di Mosè. Nel deserto era custodita sotto una tenda, che precedeva il popolo durante l’esodo. Per gli ebrei era il segno della presenza di Dio
Quando la nube copriva la tenda, “la gloria del Signore”  riempiva la Dimora e Mosè non poteva entrarci. (Es.40,34-35). Se nel libro dell’Esodo si parla di nube-ombra che copre la tenda del convegno, Luca parla dello Spirito Santo che scende su Maria, presentandola come la nuova Arca dell’Alleanza. Maria non contiene in sé le tavole della legge, ma una persona, Gesù, un dono offerto e destinato non solo a un popolo, ma a tutta l’umanità.
In 2Sam.6, si racconta il recupero da parte di Davide dell’Arca che i nemici Filistei si erano impadroniti. L’Arca, situata su un colle viene traslatata sul monte di Gerusalemme. Anche Maria, dal colle di Nazareth va verso la regione montagnosa. Mentre l’Arca veniva trasportata a Gerusalemme il re Davide “saltava di gioia”, come il bambino nel grembo di Elisabetta,
Nel tragitto del trasferimento dell’Arca, succede un episodio drammatico (6,6-8), di fronte al quale Davide iniziò ad avere timore del Signore e si domanda: “Come potrà venire da me l’arca del Signore?”. Stesse parole pronunciate da Elisabetta quando sente il saluto Maria. Allora Davide decide di lasciare l’Arca nella casa di Obed-Edom di Gat per 3 mesi, stesso periodo della permanenza di Maria da Elisabetta. La casa di Obed è stata benedetta abbondantemente dal Signore, come Elisabetta riceve la grazia della fecondità, della vita.
Dio, mediante Maria, visita il suo popolo e il suo popolo lo riconosce. L’incontro tra le due donne protagoniste del vangelo, riflette l’intreccio tra l’AT e il NT: Elisabetta, porta in sé le promesse, le attese dell’umanità, il desiderio, la fame e Maria porta in sé l’atteso, il compimento, il cibo.
Nell’annunciazione, l’angelo, oltre a presentare il progetto di Dio, ha dato a Maria un segno da lei non domandato: ha parlato della gravidanza dell’anziana e sterile Elisabetta. L’angelo gli disse: “Vedi: anche Elisabetta… ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei” (Lc,1,36). Maria ed Elisabetta sono la testimonianza che “nulla è impossibile a Dio”.
Allora Maria non è rimasta in casa a contemplare questa profonda esperienza interiore, neppure è andata in giro a fare shopping per preparare il Natale in casa sua. Si mette in viaggio, come fece Abramo, come farà poi Gesù e, dopo di Lui, la Chiesa missionaria. Maria ha ricevuto un “segno” e vuole andare a prenderne atto, come faranno i pastori (Lc.2,12).
La sua “fretta” non esprime l’ansia o l’incertezza, ma la premura e la gioia di scoprire, partecipare e accogliere nella fede ciò che Dio sta per compiere, perché crede in ciò che le è stato detto. Non si preoccupa delle distanze, dei disagi o rischi possibili, non calcola il tempo o la fatica del viaggio per raggiungere la sua parente.
Porta nel suo ventre la Parola di Dio, il frutto benedetto: ora è lei la Nuova Alleanza, il Tempio, il Tabernacolo che contiene la presenza di Dio.
Maria si fa visita di Dio per gli altri: sente la necessità di comunicare e condividere il dono che ha ricevuto da Dio con gli altri, anche attraverso il servizio.
Così come l’angelo aveva fatto con lei, adesso Maria entra e saluta Elisabetta, portando nel suo ventre la Parola di Dio. Possiamo dire che è la prima processione del Corpus Domini nella storia.
Al saluto di Maria (lei poi non parla) risponde per primo il figlio che Elisabetta porta in sé: esulta di gioia alla presenza del Signore ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo. Elisabetta allora si rende conto che in Maria le profezie si stanno realizzando: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo”. Maria è benedetta per la sua fede: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”: qui troviamo la prima lode rivolta a Maria, che ancora oggi continua a risuonare nella Chiesa con “Ave Maria piena di grazia”.
Elisabetta non dice “Beata te che hai creduto”, ma “Beata colei che ha creduto”. Maria, ieri come oggi, rappresenta l’intera comunità cristiana, che ha saputo accogliere e incarnare la Parola.
S. Ambrogio: “Anche voi siete beati, perché avete udito e avete creduto: ogni anima che crede, concepisce e genera la Parola di Dio e riconosce le sue opere (…) Se corporalmente c’è una sola Madre di Cristo, secondo la fede Cristo è generato da tutti coloro che credono”.
Gesù diceva: “Chi ascolta la mia Parola e la mette in pratica è per me fratello, sorella e madre” (Lc.8,21).
La Chiesa ci propone Maria, Arca dell’Alleanza, come modello dei credenti, perché lei, visitando Elisabetta, non le ha portato un regalo come esige il galateo natalizio, ma Gesù nel suo grembo. E con Gesù ha portato la gioia, lo stupore, la speranza, la vita. A Natale Dio Padre ci dona se stesso, donando suo Figlio. Chiediamo alla Vergine che in questo Natale possiamo, nella fede, sperimentare e accogliere i segni della presenza di Dio in mezzo a noi e diventare visita di Dio agli altri, condividendo il suo dono prezioso.

Approfondimento
Gesù non doveva nascere solo per migliorare la situazione esistenziale delle persone, per affermare certi ideali o per incoraggiare le aspirazioni migliori dell’umanità, tutte cose che nel corso della storia si sono realizzate anche se tra molte contraddizioni e ritorni indietro. Gesù doveva innanzitutto rinnovare la natura stessa dell’uomo nella sua integrità fatta di carne, di affettività e di spirito. Per questo – dice la lettera agli Ebrei – entrando nel mondo Cristo dice: un corpo Signore mi hai dato. Non è Gesù – colui che esiste dai giorni antichi – che viene ridotto alla nostra condizione umana ma è la nostra condizione umana – il corpo – che viene a Lui consegnata e quindi “elevata”. Per questo lo stesso Gesù aggiunge: ecco io vengo per fare la tua volontà. Pur avendo un corpo come noi tutti Gesù, a differenza di noi tutti, entrando nel mondo parla innanzitutto con il Padre stesso e non con il mondo, conserva cioè una relazione prioritaria e intima con il Padre. Questo implica che da un lato Gesù, con il suo atteggiamento figliale di obbedienza, rende questo suo  corpo e quindi tutta la sua persona, la sua vita, la sua volontà disponibili perché si realizzi in lui l’opera del Padre ed il Padre, dal canto suo, risponde riversando nel Figlio non dei beni esteriori ma la sua stessa vita divina. Questa è già presente nel bambino di Nazareth, cresce con il crescere della sua persona e in un certo senso esplode con la resurrezione per riempire il mondo intero: ecco – conclude Michea – Egli sarà grande fino ai confini della terra e il suo nome sarà Pace. Con il corpo di Gesù risorge e quindi nasce tutta l’umanità che si associa a Lui per la semplice fede. Chiunque come Gesù accetta il rischio della fede e quindi entra nel mondo – non si separa dal mondo – dicendo come Lui a Dio Padre: “ecco io vengo per fare la tua volontà”, questi diventa in un certo senso carne della carne di Gesù, fratello, sorella e madre di Gesù, come se ogni corpo divenisse un grembo per accogliere la vita divina che germinata cresce gradualmente fino ad assumere la piena statura di Cristo. Così ogni vita umana è destinata ad esprimere sempre di più qualcosa della vita divina. È come se Dio dicesse, anche all’handicappato, all’embrione abortito o al vecchio abbandonato: consegnami il tuo corpo, la tua vita, e ne farò molto di più. (1) Dalla vita o realtà più insignificante Dio può far nascere, come dal piccolo villaggio di Betlemme di Efrata, qualcosa che gli rende gloria. È il mistero del Natale che illumina ogni esistenza umana: la nostra vita non basta a sé stessa; deve accogliere in sé la vita divina. Ma in cosa si differenzia il modo di vivere divino da quello umano? In niente e in tutto allo stesso tempo. Accogliendo la vita di Dio il nostro modo di sentire, parlare, amare rimane assolutamente lo stesso al punto che in nulla il saluto di Maria ad Elisabetta può distinguersi da qualsiasi altra interazione umana. Al contempo tutto cambia perché questo modo umano di amare, una volta santificato dalla presenza della vita divina nei nostri cuori, diventa un mezzo attraverso il quale passa lo Spirito Santo e le persone dimenticano sé stesse e diventano capaci di vivere ogni “incontro” come un’esperienza di comunione. Dopo l’incarnazione ogni incontro con l’altro non è mai una formalità, una coincidenza, tanto meno un disturbo. In ogni incontro c’è sempre anche la presenza del “mistero” del Natale, il mistero della vita divina che si realizza nella vita umana.  Osservando attentamente ciò che accade tra Elisabetta e Maria ci si accorge che l’una è attenta più all’altra che a sé stessa. Maria cerca Elisabetta e la saluta per prima riconoscendo nella sua gravidanza non un semplice “fatto umano” ma un’espressione dell’amore di Dio che ha agito nella sua vita. Per questo Maria trascura di salutare per primo Zaccaria. Perché riconosce in quella gravidanza senile il primato dell’opera di Dio, l’azione dello Spirito Santo. Ugualmente Elisabetta restituisce la precedenza alla cugina chiamandola “la madre del mio Signore” e riconosce in lei non la sola relazione parentale ma l’opera dello Spirito Santo: beata te che hai creduto. In altre parole, l’amore umano vivificato dallo Spirito Santo diventa capace di riconoscere anche nelle situazioni “nascoste” un’opera di Dio che le rende preziose, diventa quindi capace di gioire sempre per l’altro, e soprattutto, diventa capace di cercare questo “incontro” anche laddove la nostra natura sarebbe tentata di escludere, di ignorare, di aggredire. A causa del peccato noi siamo costantemente tentati di evitare, banalizzare o distorcere ogni incontro in uno sforzo competitivo o aggressivo. Il peccato infatti è nel corpo esattamente come la vita divina, ed esso è quel potere che ti trattiene nell’orizzonte ristretto del tuo interesse, in modo tale che tu viva senza amare e quindi muoia senza accorgertene. Moriamo ogni giorno senza accorgercene, senza avere il senso del peccato e quindi del pericolo, senza la consapevolezza della sofferenza che causiamo a noi stessi e agli altri, senza renderci conto che anche la nostra vita è fatta per l’incontro, per essere visitata, rallegrata da mille occasioni nelle quali non incontri solo l’altro ma anche il mistero della vita divina e della sua tenerezza. Per la fede impariamo a riconoscere la vita divina negli altri e ad esclamare come Elisabetta: a che debbo che il mistero del Natale sia giunto fino a me.

(1) Jovannotti