Gv.15,1-8  V Dom. Pasqua
Il testo del vangelo fa parte dei discorsi d’addio (cap.13-17) che Gesù rivolge ai suoi discepoli, dopo aver lavato i loro piedi nell’ultima cena, prima di affrontare la passione e la morte in croce. Nel suo testamento spirituale, parla della sua dipartita e della promessa di inviare il Consolatore. Sono parole di conforto e di incoraggiamento per alleviare il turbamento dei discepoli. Parole rivolte anche alla comunità di Giovanni che stava vivendo difficoltà interne e persecuzioni all’esterno per aiutarla a non abbandonare la fede.
Attraverso l’allegoria della vite e dei tralci, Gesù invita i suoi discepoli a rimanere sempre uniti a Lui se vogliono portare frutto.
Nell’ ambiente giudaico, oltre all’olivo (l’olio serviva per consacrare i re e i sacerdoti) e al fico (i cui frutti dolci erano paragonati alla dolcezza della Torah. Gesù vede Nicodemo sotto il fico, cioè a meditare la Legge), la vigna era una pianta molto familiare anche se esigeva cure impegnative.
Nell’A.T. la vigna simboleggia il popolo di Dio, Israele, ma soprattutto tutte le attenzioni che Dio gli ha rivolto: lo liberò dalla schiavitù d’Egitto, gli preparò un terreno fertile, lo difese dai nemici, lo amò e lo benedisse. Ma la vigna-Israele non ha prodotto nessun frutto: “si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, si attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is.5,7; Ger.2,21).
Tutto l’A.T è il racconto di questo amore di Dio tradito a causa di una vigna infedele che non ha saputo produrre frutti di amore e di giustizia.

Con Gesù avviene una grande sostituzione: “Io sono la vite vera”.  La vite non è più il popolo giudaico, ma Gesù stesso in quanto è l’unico uomo che sa produrre il frutto desiderato da Dio, che sa amare davvero gli uomini e il Padre. In Lui noi tutti possiamo produrre frutto. Con questa affermazione, Gesù dichiara che il vero popolo di Dio è rappresentato da Lui (vite) e dai discepoli (tralci) che gli danno adesione (Ez.15,1-5: il legno della vite è inservibile: non è adatto per costruire un oggetto o uno strumento utile. Neppure la cenere serve per lavare gli indumenti: lascia macchie indelebili. Serve solamente per far passare la linfa ai tralci e produrre frutti).
Il Padre è il vignaiolo che ha cura della prosperità della vite. Solo lui può giudicare la fecondità di ogni tralcio: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia (purifica), e ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto”.
Un tralcio improduttivo, che si preoccupa di nutrire se stesso e produce solo fogliame, viene tagliato.
Infatti si alimenta della linfa e dell’amore di Gesù, ma poi non lo trasforma in frutto per gli altri. Ciò può succedere quando partecipiamo all’Eucaristia: ci alimentiamo di Gesù che si fa pane affinché possiamo avere la forza e il coraggio di farci noi stessi pane per gli altri. Questo è il significato dell’Eucarestia. Ma ci sono cristiani preoccupati delle loro devozioni e della propria perfezione spirituale che non hanno poi tempo di occuparsi degli altri.
Se invece un tralcio produce frutto, il Padre lo pota/purifica perché diventi più produttivo, cioè gli toglie qualsiasi ostacolo o comportamento nocivo che gli impedica di produrre amore: orgoglio, ambizione al denaro e all’apparenza, difetti, infedeltà al vangelo, pigrizia, ipocrisie, indifferenza verso chi soffre… Quindi il Padre ci purifica affinché possiamo imparare ad amare e a metterci al servizio degli altri. Le mani di Dio feriscono solo per risanare (Gb.5,17). Il Padre, che è un vignaiolo professionista, ci conosce molto bene e sa quali sono quegli elementi negativi in noi da eliminare. Questo compito delicato compete esclusivamente a Lui: non spetta né a Gesù né ai discepoli.
Il Padre ci pota/purifica attraverso il Vangelo. Giuda, che aveva aderito a Gesù e poi lo tradì, è l’immagine di chi non permette al Padre di intervenire nella sua vita, di chi non si lascia “purificare” il cuore dalla Parola di Dio e, quindi, corre il rischio di perire, di seccarsi.
Per questo è necessario che nella vita di ogni credente non manchi l’ascolto e il confronto con la Parola, che è la linfa per imparare ad amare Dio e il prossimo. È il frutto che Dio si aspetta da noi. Non basta essere cristiani, battezzati, credere in Gesù se poi non produciamo frutto, cioè l’amore concreto per il prossimo.

Di qui l’invito insistente ai discepoli a “rimanere in” Lui. Come i tralci devono rimanere attaccati alla vite per nutrirsi e crescere, così i discepoli devono rimanere uniti a Cristo. Senza questa unione vitale non c’è vita, il tralcio muore e si secca. Quando il nostro amore si traduce in servizio significa che siamo in piena comunione con il Signore. L’imperativo rimanete in me si traduce in amatevi mutuamente.
L’unione dei tralci/discepoli con la vite/Gesù consiste nel mangiare la sua carne e bere il suo sangue, cioè assimilare l’amore di Gesù, che si è manifestato con la sua vita e morte: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io con lui” (6,56). Questa assimilazione di Gesù, produce frutto. Contrariamente, “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca”. Quindi serve per essere bruciato (anche Giuda sembrava fosse un “tralcio” produttivo come gli altri, ma poi “i fatti” hanno dimostrato che era un ramo morto: era discepolo solo di nome…).
Il vangelo di questa domenica ci invita ad avere una fede concreta: non un’adesione formale o intellettuale a Cristo. Stesso invito nella II° lettura: “Non amiamo a parole ne con la lingua, ma con i fatti”; “Chi osserva i suoi comandamenti rimani in Dio e Dio in lui”.
Un esempio di cosa significhi concretamente credere e amare, ci è offerto da S. Paolo (I° lett), il quale dopo l’incontro con Cristo sulla via di Damasco, ha incominciato a mettere in gioco la propria vita per il Vangelo e per i fratelli.

Di fronte alla sofferenza che l’umanità sta attraversando a causa della pandemia e delle gravi conseguenze economiche e sociali che ha provocato, quale frutto ci invita a produrre la Parola di Dio?
La vite non produce uva per se stessa, ma per gli altri. Il cristiano non produce opere d’amore di servizio per se stesso o per ottenere un premio da Dio, ma ama senza aspettarsi nulla in cambia. Come fa Dio.

Autori consultati: Maggi, Fausti, Olivieri, Bianchi, Manicardi e altri