22 dicembre 2024 – IV domenica di avvento

Il Vangelo di oggi descrive l’incontro di due donne e dei bambini che portano in grembo. Esso ci ricorda che il mistero del Natale ha a che fare fondamentalmente con la vita, con tutta la vita dell’uomo, con la vita che nasce e che muore. Non la vita in astratto, ma la vita del corpo, la vita nella concretezza di ogni persona e di ogni storia. Per questo la lettera agli ebrei descrive il mistero del Natale dando voce a Gesù stesso che entrando nel mondo si rivolge al Padre dicendo: non hai voluto offerte ma mi hai provveduto un corpo. Mi hai messo nella condizione di vivere la concretezza di una vita umana. Gesù, tuttavia, non nasce semplicemente dal mondo, come tutti, ma “viene” in esso, come uno che ha la sua origine dal cielo. In questa entrata di Gesù nel mondo vi è già il suo ritorno al padre.

Venendo nel mondo, infatti, egli guarda già al compimento della sua opera che è quello di riorientare ogni cosa ed ogni storia al Padre e dice: ecco io vengo per fare la tua volontà. Attraverso la sua volontà, infatti, conclude la lettera agli Ebrei, noi siamo santificati, partecipiamo cioè alla vita dello stesso Spirito Santo che riempiva Maria, Elisabetta e i loro bambini e siamo anche noi messi nella condizione di ritornare al Padre. Quel cordone ombelicale che connette Gesù a Maria diventa punto di contatto tra la vita di Dio e la vita dell’umanità intera e quindi permette che il dono dello Spirito Santo da lui si estenda a tutti. Non dobbiamo più offrire sacrifici od offerte, conclude la lettera agli Ebrei, ma accogliere il dono. Se offriamo noi stessi al Padre come Gesù diamo allo Spirito Santo la possibilità di santificarci. Beata colei che ha creduto all’adempimento della parola del Signore, dice Elisabetta a Maria.

La stessa fede che ha permesso a Maria di accogliere in sé stessa la vita di Dio può permettere a noi di aprirci allo stesso dono. Non è un caso che Maria entri nella casa di Zaccaria salutando innanzitutto Elisabetta. Maria non e’ mossa da legami affettivi, da convenevoli, da motivi umani ma dal desiderio di portare il Vangelo, la buona notizia che Dio vuole fare una storia meravigliosa con ciascuno. Elisabetta si era nascosta per timidezza, per timore, per vergogna, forse per umiltà. Maria la invita gioiosamente a credere che la sua storia è anche la storia di Dio. Non conta il fatto che sia stata sterile fino ad allora. Conta la sua fiducia e la sua disponibilità.

La fede nell’incarnazione è la fiducia nel fatto che ogni vita umana, nella sua storicità, adesso è anche la storia di Dio. Non possiamo credere di poter avere la vita di Dio se prima non crediamo che Dio ha voluto davvero assumere tutta la vita umana, dalla sua fase embrionale alla sua morte. Maria che porta Dio nel grembo è la nuova arca dell’alleanza che annuncia al popolo che adesso la gloria di Dio vuole abitare nella nostra carne. Eppure, finché non crediamo che la gloria di Dio e’ vederci pienamente vivi e pienamente felici, avremo sempre paura di dire con Gesù “ecco io vengo per fare la tua volontà”. Questa esitazione ad affidarci pienamente alla volontà di Dio ci impedisce di gioire per la nostra storia perché la percepiamo insoddisfacente o inadeguata e di conseguenza ci impedisce anche di gioire per la storia che Dio fa negli altri perché la percepiamo come rivale, perché la giudichiamo migliore o peggiore e perché, di conseguenza, non vediamo come quella storia contribuisca anche alla nostra salvezza. Dopo l’incarnazione ogni incontro vero diventa salvifico.

Ma da che mi può salvare l’accoglienza dello spirito Santo e quindi l’accoglienza dell’altro? Dal mio individualismo, dal mio protagonismo, dalla schiavitù di quell’ego che, anche nei rapporti sciali, è più facilmente portato allo scontro che non all’incontro. Il profeta Michea annuncia la nascita di un liberatore a Betlemme. Egli nasce dalla più piccola della famiglia di Giuda e da un popolo che è stato consegnato in schiavitù. Dio stesso, dice il profeta, ha consegnato il suo popolo a questa schiavitù fino al compimento del suo tempo. In questa profezia vi è espressa una dinamica propria della storia di ogni popolo e di ogni persona. Non cominciamo a desiderare la pienezza della nostra libertà, che consiste nell’accogliere la volontà di Dio nella nostra vita, fino a quando non ci accorgiamo della nostra schiavitù. Fino a quando, cioè, non apriamo gli occhi sul fatto che non riusciamo a gestire la nostra vita da soli, che non troviamo da noi stessi l’accesso alla comunione con gli altri, che le nostre rabbie, le nostre chiusure, le nostre paure, le mille guerre di questi giorni, sono legate alla nostra resistenza al dono dello Spirito Santo, al dono di quella pienezza di vita che viene da Dio.

Eppure, proprio allora, quando magari saremmo tentati di disperazione, proprio allora possiamo fare il nostro atto di fede, abbandonare noi stessi a Dio e dirgli il nostro sì. Perché dire di sì a Dio e come dire di sì all’amore e poter cantare con le parole di Jovannotti: A te che hai preso la mia vita e ne hai fatto molto di più. A te che hai dato senso al tempo senza misurarlo. A te che sei il mio amore grande ed il mio grande amore.” (A te, Jovannotti)