Domenica 10 novembre 2024 – XXXII / B

La lettera agli ebrei descrive la morte e la resurrezione di Gesù come l’inizio di un nuovo modo di entrare in relazione degli uomini con Dio. Mentre infatti prima i sacerdoti compivano atti di culto simbolici in un tempio costruito da mani di uomo, adesso Gesù è penetrato nei cieli ed ha stabilito una comunione reale tra la sua vita umana e la vita di Dio, e quindi tra la nostra vita umana e la vita del cielo.

Questo implica un cambio radicale della nostra vita e della nostra morte. La nostra vita, riprendendo l’immagine della prima lettura e del Vangelo, passa da una condizione di vedovanza, quindi di povertà e di lutto, ad una condizione di sposata. La vedova di Zarepta non riceve una scorta eccezionale di olio di farina che la renda autonoma per il resto della sua vita. Ella riceve la più umile garanzia di quel poco di olio e di farina quotidiani che le sarebbero bastati fino al tempo dell’abbondanza e della consolazione definitiva. Il miracolo era dunque quello di una vita che perdurava non sulla base di un’abbondanza propria ma sulla base di una fiducia quotidiana e ripetuta in colui che della vita è l’autore. Nella sua condizione di lutto la vedova non poteva che avere uno sguardo ristretto sulla realtà: mangiamo qualcosa io e mio figlio – ella dice – e poi moriamo. Il profeta la invita a credere non solo alla propria possibilità di sopravvivenza ma anche alla sua capacità di dare ancora la vita ad altri, di dare loro precedenza e quindi di amare nel dono di sé: prima cuoci una focaccia per me, dice il profeta; quindi, ne avrai per te e per tuo figlio.

Alla luce di tutto ciò possiamo capire meglio l’insegnamento di Gesù nel Vangelo di oggi. Da un lato, dunque, abbiamo il tesoro del tempio nel quale tutti gettano il loro contributo e dall’altro abbiamo Gesù stesso che sedendosi di fronte al tesoro, si pone come punto di riferimento alternativo. È Lui in fondo il vero tesoro che il Padre offre al mondo ed è Lui che offre sé stesso liberamente e per amore, dice la lettera agli Ebrei, per togliere i peccati e quindi ciò che impediva agli uomini di avere una relazione vera e significativa con Dio. Per comprendere quanto prezioso e incomparabile sia questo dono occorre riflettere sul fatto che il peccato non è una semplice violazione della legge ma una distorsione profonda del nostro modo di affrontare la vita. Come uno che conosce i cuori, dunque, Gesù si siede ed insegna come educare il nostro cuore.

Egli suggerisce che vi è qualcosa che dobbiamo “disimparare”: guardatevi dagli scribi…Quindi insegna che vi è qualcosa che dobbiamo imparare: guardate questa vedova. Quanto agli scribi, dunque, Gesù mette in luce il fatto che fanno le cose, incluso la preghiera, per ricevere una gloria umana. Vogliono essere visti, apprezzati, rispettati, amati ma per sé stessi, in vista di un’affermazione di sé stessi, dando precedenza a sé stessi. Dobbiamo disimparare a cercare noi stessi in tutto, negli affetti, nella stima, nelle realizzazioni di ogni giorno. Chi cerca se stesso o la propria gloria non può avere fiducia in Dio e soprattutto non sarà mai sazio. Perché gli scribi dovrebbero divorare le case delle vedove se non perché posseduti da un vuoto e da un’insoddisfazione insaziabile?

In seconda battuta Gesù evidenzia qualcosa che tutti dobbiamo imparare. Egli fa notare ai discepoli, dunque, che molte persone danno molto ma che in fondo tutti danno dal loro superfluo. Danno tanto quanto avanza loro, senza mai mettere in questione la loro sicurezza e quindi la disponibilità a fidarsi veramente di Dio che è custode della loro vita. Solo la vedova povera, proprio come quella di Zarepta, dona a partire “dalla sua mancanza” e quindi getta in Dio tutto il suo vivere. Ella offre se stessa proprio come Gesù sulla croce. Getta in Dio ogni sua preoccupazione, dubbio, ansia, esitazione, umiliazione. Le due monetine che scivolano impercettibili nella cassetta delle offerte, da un lato espongono la sua indigenza agli occhi degli osservatori, ma dall’altro la sua fiducia agli occhi di Dio. Gettandole nel tesoro del tempio, infatti, la donna non ha espresso tanto la sua generosità. Sapeva bene infatti che anche a volerle trattenere quelle monetine non le sarebbero servite a nulla. Gettandole nel tempio ella protesta la sua fiducia nella generosità di Dio che si occuperà di lei e che le darà la vera sazietà del cuore. Siamo chiamati come lei ad affidare a Dio non quello che abbiamo ma quello che non abbiamo: la nostra povertà e la nostra inadeguatezza. È questa la comunione sponsale tra noi e Dio che Gesù ha inaugurato con la sua morte e resurrezione: noi, attraverso Gesù, offriamo noi stessi al Padre e dal Padre riceviamo la vita risorta del Figlio.