Domenica 28 aprile 2024 – Pasqua V
A lui si prostrano quanti dormono sottoterra e al popolo che nasce diranno: ecco l’opera del Signore. È l’annuncio della resurrezione, di una vitalità nuova che si fa presente in tutta le realtà e penetra persino sottoterra, nella realtà più nascosta e irraggiungibile. È una vitalità che può trasformare sia gli individui che la comunità nel suo insieme. Per questo negli atti si parla di Paolo che, illuminato dal risorto, entra ed esce liberamente da Gerusalemme, testimoniando con franchezza il suo incontro col Cristo e si parla della prima comunità cristiana come di una comunità “viva” che si costruisce, che cammina nel timore del Signore e nella consolazione dello Spirito Santo e che si moltiplica, cioè, tende ad attrarre altre persone. Concretamente questo incontro con il risorto attiva un duplice movimento nella vita del credente. Da un lato attrae verso l’interno, verso ciò che è familiare e preserva i legami di comunione. D’altro lato esso spinge ad andare verso l’esterno, crea slanci verso tutto ciò che è distante, sconosciuto, difficile da raggiungere, magari disprezzato dai più, per donare vita ad altri, portare frutto e diffondersi.
Lo sforzo di San Paolo di cercare i fratelli e farsi accettare dalla comunità dei discepoli manifesta appunto la sua preoccupazione di “rimanere” in Cristo. E d’altra parte il suo zelo nel cercare quelli di lingua greca, ostili al vangelo, quindi quelli più distanti dal suo ambiente naturale, manifesta la sua preoccupazione di portare frutto. Questa vitalità apparentemente non ha niente di straordinario tanto che viene contrastata con violenza dai giudei di lingua greca e Paolo deve fuggire da Gerusalemme. Eppure, proprio essa manifesta quel mistero di comunione tra noi e il Risorto che Gesù nel Vangelo descrive con l’immagine della vite e dei tralci. In questa prospettiva la vita risorta non è diversa dalla vita normale. Essa è coestensiva con il nostro vivere di ogni giorno. Per questo se da un lato non possiamo far “nulla” senza Gesù, dall’altro lato Gesù non fa nulla senza di noi.
Si tratta, in sostanza, di una nuova moralità per la quale la realizzazione della vita buona non dipende semplicemente dalle proprie forze ma dal rimanere innestati nella sorgente di ogni forza e in particolare nella sorgente della forza vitale dell’amore, che procede dal risorto. Egli si definisce la vite vera – non semplicemente la “vigna” – perché Lui è il ceppo unico, che ci innesta nella vita del Padre e ci fa partecipi di essa coma la vite partecipa la sua linfa ai tralci. Per mezzo di Gesù la vita umana che muore entra in comunione con la vita divina e per mezzo del mistero pasquale diventa anch’essa vita che risorge e questo ci permette di pregare con il salmista: quelli che dimorano sottoterra si prostrano a Dio.
Naturalmente questa comunione tra la vita divina e la vita terrena non è una cosa meccanica e scontata. L’adesione a Cristo è una scelta da rinnovare ogni giorno. È una libera adesione che non ammette alcuna costrizione. La possibilità che il tralcio secchi e venga bruciato non descrive tanto una punizione quanto l’evoluzione naturale delle cose. Se io decido di agire distaccandomi da Cristo “Dio non può far nulla”[1] tranne accettare la mia chiusura, la mia resistenza, la mia non recettività. Per questo Giovanni deve rinnovare il monito ai discepoli: Non amate solo con la bocca e a parole. Egli invita a fare attenzione alla possibilità che la vita nuova in Cristo da “vita vera” non si riduca ad una vita teatrale. Assicuratevi, continua Giovanni, che il vostro amore si esprima nei fatti e nella verità. L’amore cristiano non è riconosciuto dai sentimenti ma innanzitutto dalle scelte, cioè dall’intenzione di cercare il bene. L’amore di Cristo in noi è per sua natura concreto e sincero, non sentimentale. Esso genera il desiderio di rendersi utili e di essere veri, trasparenti. Ma se l’amore cristiano non è sentimentalismo esso non è nemmeno volontarismo. Bisogna allora vigilare su un duplice pericolo.
Se il tuo cuore ti rimprovera qualcosa fa attenzione a non rimanere nelle ristrettezze del tuo cuore. Non puoi credere che l’amore di Dio sia quello racchiuso nel tuo cuore. Il cuore di Dio è più grande del tuo e quindi anche il suo amore. Dinanzi alla nostra povertà di amore non dobbiamo scoraggiarci ma appoggiarci all’amore grande di Dio e rimanere in colui che per noi è morto ed è risorto. Se al contrario il cuore non ci rimprovera nulla, quasi che uno possa dire di aver amato abbastanza, occorre fare attenzione al rischio di un ritorno su sé stessi, cioè dell’auto compiacimento, della falsa sicurezza. Noi siamo i tralci e non la vite e senza la linfa che vien dal Cristo non possiamo fare nulla. Se il cuore non ci rimprovera nulla dobbiamo mettere la nostra confidenza nel padre e ricordare che tutto ciò che di buono otteniamo nella vita viene da lui. Dobbiamo ricordare insomma che dovunque nella vita vi è un frutto li vi è l’opera di Dio e non semplicemente la nostra.
[1] Papa Francesco