21 Aprile 2020 – IV domenica di Pasqua – Preghiera per le vocazioni
È meglio rifugiarsi nel signore che confidare nell’uomo. In questa preghiera del salmista vi è tutto il dramma della vita umana. Da un lato le interazioni umane sono marcate dal “bisogno dell’altro”. Nessuno può vivere confidando soltanto in sé stesso. Per natura noi viviamo affidati gli uni agli altri e innescati in mille relazioni di aiuto. Che sia la maestra o lo psicologo, la badante o il vigile urbano, il dottore o il prete noi tutti affidiamo la nostra vita a qualcuno. Ci affidiamo alla cura di qualcuno oppure ci prendiamo cura di qualcuno. Forse il “prendersi cura” riassume ogni vocazione umana. D’altro lato è difficile trovare qualcuno in cui confidare che non sia un mercenario. Le relazioni umane prima o poi si rivelano deludenti per una qualche mancanza di gratuità.
Nasce allora la nostalgia di un pastore bello, di uno che si “differenzia” dagli altri perché ama con un amore diverso, con un amore grande. Un amore che mette la tua vita davanti alla sua. Un amore caratterizzato da quella gratuità che non cerca più un proprio interesse, come il mercenario, ma che si esprime nella logica del sacrificio. Questa logica del prendersi cura gratuitamente dell’altro e che si oppone a quella del lupo, che viene per rapire, per disperdere e per distruggere, è al di sopra di ogni umana possibilità. Tutti scappano dinanzi al lupo. L’annuncio di un pastore che dona la sua vita e che invita a seguirlo sul cammino di un amore più forte della morte, che passa attraverso il mistero pasquale, è l’annuncio della possibilità di vivere e di amare in un modo che non sarebbe possibile senza Dio e senza la resurrezione.
La resurrezione non è un’astrazione e nemmeno un miracolo di un istante. Essa è propriamente una vocazione che ci mette in un cammino di crescita. Non sappiamo ancora cosa saremo ma sappiamo fin d’ora che siamo realmente figli di Dio, cioè, sappiamo che, per la fede, possiamo vivere ed amare non più solo secondo la nostra natura ma nella pienezza dello Spirito Santo. Questa non è l’opera dell’uomo ma l’opera di Dio ed è una meraviglia ai nostri occhi non inferiore al miracolo compiuto da Pietro nei confronti dello storpio che mendicava nel tempio. Ma proprio perché sappiamo che la nostra natura è fragile ed è ferita come quella dello storpio potremmo resistere all’annuncio dell’amore di Dio che ci fa figli ed essere portati a disprezzare il dono. Quelli che vivono nel mondo, infatti, costruiscono a partire dalle loro forze. Dio costruisce a partire dalla pietra scartata. Il mondo costruisce scommettendo su forze proprie. Dio, invece, prende ciò che e’ disprezzato dagli uomini per farne una pietra angolare cioè l’oggetto di una cura speciale. Il mondo non capisce questo amore e non riconosce i figli di Dio perché non conosce Dio e non capisce la resurrezione.
La gratuità dell’amore è possibile solo a partire dalla resurrezione. Gesù è l’unico che può dare la sua vita e poi riprenderla nuovamente. Non nel senso che Egli muore per gioco o per finta, perché tanto dopo c’è la resurrezione, ma nel senso che egli muore per scelta. Egli muore affinché ci possa essere per noi la resurrezione. La resurrezione non c’era prima che ci fosse la morte di Gesù. La resurrezione diventa possibile nel nostro mondo dominato dalla morte proprio perché Gesù ha avuto la determinazione di scegliere liberamente quella morte assimilandola alla propria vita. Egli, dunque, riprende la sua vita, non nel senso banale di riappropriarsene, di volgersi indietro, ma nel senso più profondo di ritrovarla davanti a sé come il frutto del suo sacrificio.
La resurrezione e’ l’apertura di un cammino e di una possibilità che prima era preclusa all’umanità, cioè la possibilità di diventare figli di Dio, di partecipare alla vita divina. Per il mistero pasquale Gesù si è unito cosi intimamente alla nostra vita che muore da poter dire – lui solo – che le pecore sono sue, che gli appartengono. La loro vita è la sua. E la sua vita può diventare la loro. Gesù, per il mistero pasquale, si fa familiare nell’intimo di tutte le pecore anche quelle che ora non sono ancora del suo gregge. Esse sentiranno la sua voce, riconosceranno un’appartenenza a lui ché ha dato la sua vita per loro. La resurrezione di Gesù diventa allora la vocazione per eccellenza di ogni uomo; la vocazione a diventare sempre di più e sempre più chiaramente figli di Dio. Al punto che Pietro può dire che non vi è un altro nome che possa salvare, cioè che possa far vivere in pienezza sotto il cielo. Questo nome non è in cielo lontano da noi. È sotto il cielo. Ma non è nemmeno semplicemente sulla terra, come ogni altra realtà umana. Il suo nome opera sotto il cielo, cioè in una condizione intermedia tra ciò che siamo su questa terra e ciò che diventeremo nel cielo. Quello che saremo non lo sappiamo ma sappiamo che saremo simili a Lui. Siamo ancora lontani dalla meta ma abbiamo un pastore che si prende cura di noi. Possiamo apparire come uno scarto agli occhi del mondo; eppure, siamo già un essere speciale agli occhi di Dio. Il Risorto è il buon pastore perché si prende cura di ciascuno in modo particolarissimo. A Lui potrebbero adattarsi le parole della canzone di Battiato che dice: ho superato le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare e guarirai da tutte le tue malattie perché sei un essere speciale ed io sì che ho cura di te.