17 marzo 2024 – V Quaresima / B

Nel profeta Geremia Dio proclama il suo desiderio di fare una nuova alleanza con il suo popolo. La prima alleanza era una relazione basata su un legame esteriore, descritto dall’immagine di Dio come un padre che conduce per mano il figlioletto Israele. Questa alleanza fallisce non perché è inadeguata ma perché rifiutata. Occorreva, dunque, un’alleanza che fosse scritta nel cuore, cioè capace di attrarre senza costringere e che fosse, dunque, personalissima. Un’alleanza, cioè, in cui non ci fosse più bisogno che un uomo dica il suo vicino cosa fare oppure che il grande istruisca il piccolo, perché Dio stesso parla al suo fedele nell’intimo. La croce, annuncia Gesù nel Vangelo, diventa il compimento di questa alleanza nuova. Dalla croce, dice Gesù, io attirerò tutti a me.

Sulla croce splende, giunge a perfezione, l’obbedienza filiale di Gesù che, per il dono dello Spirito Santo invita chi crede alla stessa obbedienza, intesa non come sottomissione ad una legge, ma come libera partecipazione a quella relazione personale ed intima di amore tra il Padre ed il Figlio che splende dalla croce. Ma per rendere attraente questa obbedienza filiale occorreva raggiungere l’uomo laddove diventa evidente l’effetto opposto della ribellione e della distanza da Dio, cioè la morte, e trasformare quella morte in un’occasione di rinascita. Il padre, dunque, ha permesso che il figlio imparasse l’obbedienza, cioè la fiducia e l’abbandono, attraverso tutto ciò che patì e così facendo ha posto in ogni morte, spirituale e fisica, una sorta di ancora a cui aggrapparsi, un’occasione di salvezza. E poiché tutti, universalmente andiamo incontro alla morte, tutti possiamo incontrare questo amore e sperimentare in esso una salvezza eterna. Non semplicemente la soluzione di questo o di quel problema ma il superamento della morte che trattiene l’uomo nella schiavitù della paura e lo porta a diffidare che Dio sia Padre. E quindi a ribellarsi nella ricerca di soddisfazioni parziali e ingannevoli che gli danno una salvezza mondana non eterna, una soddisfazione temporanea non completa, una gioia fugace non piena.

Per questo Gesù nel Vangelo può proclamare l’universalità della salvezza. I greci che hanno sentito parlare di lui si avvicinano a Filippo, probabilmente perché ha un nome greco, e gli chiedono di vedere Gesù. Non vogliono semplicemente conoscerlo esternamente, perché se lo cercano e lo chiamano per nome evidentemente sanno già chi egli sia. Vogliono approfondire e quindi interiorizzare una familiarità, una “attrattiva”, una consonanza che è già sbocciata più o meno spontaneamente nei loro cuori. È significativo che questi greci si rivolgano a Filippo con l’appellativo di “signore”, ma si riferiscano a Gesù col suo nome proprio, scavalcando così ogni distanza e formalità. Gesù conferma in pieno questo desiderio di vicinanza, confidenzialità e amicizia da parte dei greci e preannuncia in un certo senso il dono della Pentecoste, la festa dei frutti abbondanti che seguiranno la sua resurrezione. Quindi dopo aver proclamato l’universalità della salvezza annuncia anche il suo carattere di interiorità e di novità.

L’obbedienza, adesso, non è più ad una legge esterna ma alla sua persona: se uno mi serve mi segua e dove sono io là sarà anche il mio servo. La nuova alleanza consiste nel ritrovarsi e riconoscersi nel signore, quindi al contempo con Lui sulla croce e con Lui alla destra del Padre. Significa credere che non esiste un’umiliazione così profonda dell’uomo da impedire una glorificazione da parte del Padre. Significa stare nella realtà della propria vita e della vita del mondo con la fiducia di chi si percepisce unito a Cristo nel dolore e nella gioia. Come uno che non vive più nella ricerca affannosa e vuota di una salvezza mondana perché conosce il suo destino di gloria. Come “un vivo tornato da morte”, come uno libero e forte perché ha già vinto la morte e la paura; Chi crede in questa salvezza è libero e forte perché non teme di perdere la propria vita in questo mondo. E nemmeno si illude che la gloria del mondo abbia valore in se stessa perché sa bene che, nella logica del chicco di grano, soltanto ciò che viene donato nell’amore non è perduto o sprecato, ma trasfigurato e ritrovato nella comunione. Solo l’uomo redento, che vive nella resurrezione di Cristo e nell’attesa della propria, esce veramente da quella sua solitudine in cui l’aveva ridotto il suo connaturale egoismo e individualismo. L’uomo redento non vive più semplicemente per sé stesso ma della vita risorta di Cristo.

Noi dubitiamo di questo perché scandalizzati dalla debolezza della nostra carne. Eppure, anche Gesù lottava interiormente con la fragilità della sua condizione umana. Si interrogava circa il senso del suo sacrificio, su che cosa chiedere, su come pregare. Era tentato di salvare a modo suo la sua vita e versava preghiere e lacrime per poter riuscire ad abbandonarsi al Padre. Proprio per questo la sua adesione libera al disegno del padre apre anche a noi il cammino della fede. Dopo il suo discorso una voce è venuta dal cielo. Per i superstiziosi era la voce di angeli per gli scettici era un tuono. Per chi ascoltava con fede, invece, essa era luce per la loro vita, un senso per la loro storia. La Parola di Dio, infatti, come pure i mille fatti della vita che ci orientano verso la volontà del Padre ci parlano quando li ascoltiamo come un messaggio “per noi” e non per gli altri. Allora impariamo quell’ubbidienza che il figlio ha imparato prima di noi tutti e che consiste fondamentalmente nella fiducia e nell’abbandono.