10 Marzo 2024 – IV di Quaresima/B

Le letture di questa domenica ci presentano due situazioni della storia di Israele in cui Dio paradossalmente salva il popolo proprio a partire dal suo peccato. La prima è quella del serpente innalzato nel deserto. Il popolo ha mormorato contro il Signore e questa mormorazione ha causato l’insorgere di serpenti velenosi che insidiano mortalmente il cammino degli israeliti. Ecco allora che Dio chiede a Mosè di innalzare un serpente di bronzo perché, guardandolo, facciano esperienza che, proprio quella che era la causa della loro sofferenza diventa occasione di salvezza. La seconda situazione è quella della distruzione del tempio e dell’esilio in Babilonia. L’esilio durerà settant’anni, un periodo, cioè, di tempo lunghissimo che ha il sapore della definitività, della situazione senza rimedio. Ed ecco invece che dopo settant’anni Dio innalza un nuovo re Ciro che, pur rappresentando come il serpente nel deserto, la causa della sofferenza del popolo, proprio lui diviene il richiamo alla loro salvezza, ordinando al popolo un nuovo esodo in vista di un ritorno alla libertà.

Le due situazioni illuminano il Vangelo di Gesù che annuncia come il suo innalzamento sulla croce, che rappresenta il massimo rifiuto dell’amore di Dio da parte dell’uomo, diventerà da parte di Dio un’offerta di salvezza.. Non c’è un peccato troppo grande, una situazione troppo disperata, un fallimento troppo definitivo, non c’è una morte che per Dio non possa divenire occasione di misericordia e di salvezza. Mentre l’’uomo che giudica è portato a sottolineare ogni minimo errore degli altri, a criticare, ad accusare, a sparlare, e in fondo a far cadere chi zoppica, Dio agisce diversamente. Dio innalza il Figlio sulla croce non per giudicare ma per salvare, trasformando una situazione di perdizione, di morte e fallimento, in occasione di salvezza, come nel caso del serpente e dell’esilio. Il peccato, che determina la morte dell’uomo, diventa per chi crede nel figlio un richiamo a riprendere un cammino di esodo e quindi di salvezza. Chi crede, dice Gesù, sarà attratto dalla croce, cioè dall’annuncio che la salvezza viene non da una nostra perfezione ma dall’abbassamento del Figlio che apre a noi l’accesso alla misericordia del Padre. Accogliere la misericordia della croce significa venire alla luce. La croce, infatti, porta allo scoperto da un lato l’amore incondizionato di Dio e dall’altro la resistenza dell’uomo ad accogliere quel tipo di amore. La luce di Cristo che splende sulla croce denuncia come vuoto e senza vita l’orientamento fondamentale del cuore umano ad affermare se stessi, a difendersi, a prevalere, a mettersi al centro.

Chi contempla nella croce l’amore del Padre da un lato comincia ad accorgersi che le sue opere, anche eventuali opere giuste, sono morte, senza vita, perché compiute nella ricerca di sé stessi e non nel dono di se stessi.  Dall’altro questi si lascia attrarre da una chiamata che è tanto incredibile quanto la resurrezione di un cadavere: la chiamata a sedere alla destra di Dio e quindi a vivere secondo il modo di Dio che è amore trinitario, amore gratuito e comunione. Eravamo morti, dice Paolo, e ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere alla destra di Dio. Noi eravamo morti quindi incapaci di agire secondo Dio ed ecco che Dio ci ha risuscitati. Eravamo morti! Il peccato non è semplicemente una violazione di regole ma una condizione che anticipa la morte fisica a livello spirituale perché’, disconnettendoci dalla sorgente gratuita di questa vita che è la comunione con Dio, ci porta a cercare affannosamente di sopravvivere affermando egoisticamente noi stessi, illudendoci che con questo nostro operare possiamo salvare la nostra vita. E Dio ci ha risuscitati. Vi è infatti una resurrezione spirituale che anticipa quella fisica e che riconnette la nostra umanità alla vita del Padre, alla vita divina – ci fa sedere alla destra di Dio – in modo tale che la nostra vita torna ad essere l’opera di Dio e che quindi “le nostre opere sono fatte in Dio”. Noi stessi siamo opera sua – grida San Paolo – creati per delle opere buone nelle quali camminare, opere cioè non di cui siamo capaci ma piuttosto opere che siamo resi capaci di compiere.

In questo senso Gesù può dire che Dio amato il mondo “tanto”. Non quanto basta ma oltre ogni attesa. E San Paolo gli farà eco dicendo che la misericordia di Dio è sovrabbondante. Non sufficiente ma eccedente. Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo figlio unigenito. Dio salva l’uomo non facendo semplicemente qualcosa per lui ma “facendosi uomo”[1], stabilendo cioè una comunione con noi tale da porre, anche nella situazione più estrema di oscurità e peccato, un’attrazione verso il bene e verso il modo di vivere di Dio. Questa attrazione, tuttavia, non è più forte della nostra libertà che può preferire le tenebre. Nel nostro cuore si svolge una lotta continua. C’è un amore divino e vitale che ti attrae e c’è una preferenza umana che ti trattiene. Adesso afferma dunque Gesù si compie il giudizio. Adesso, nell’oggi di ogni tempo, chi ascolta può venire alla luce e accogliere una parola viva che attrae a sé e trasforma, strappandoti da quelle preferenze umane che ti trattengono nell’affermazione del tuo io che non vuol morire ad un’esistenza triste e senza vita. Eppure e’ morendo che passiamo al modo di vivere di Dio, al modo di amare di Dio, al modo di operare di Dio, al modo di gioire di Dio.

 

 

[1] Rupnik