Domenica 11 febbraio 2024 / VI/a

Il libro del levitico ricorda come spettasse al sacerdote in Israele certificare la malattia della lebbra e quindi imporre al lebbroso le severe regole di isolamento previste nel suo caso. La legge in questo modo da un lato certificava la sua contagiosità esteriore, dall’altro gli imponeva una disciplina interiore che difficilmente egli avrebbe saputo assumersi spontaneamente. Lo obbligava infatti a vivere dovendo mettere al primo posto costantemente la salute di tutti piuttosto che il proprio vantaggio. La legge funzionava così come una sorta di educazione all’altruismo e alla responsabilità che indirettamente doveva illuminare l’intera comunità. Mentre è ovvio, infatti, il rischio del contagio per una malattia come la lebbra meno ovvio è il contagio della comunità che può venire da atteggiamenti nascosti del cuore caratterizzati da individualismo e indifferenza verso il bene comune.

Questa possibilità viene messa bene in luce da San Paolo quando invita i corinzi a vigilare sulla possibilità di essere di scandalo, cioè di divenire un impedimento alla salvezza di altri. Cercate allora, egli dice, di “piacere a tutti in tutto per la loro salvezza”. Come infatti vi è una salute pubblica da preservare a livello materiale così vi è una salvezza spirituale comune da custodire di cui ciascuno è responsabile. Paolo insiste dicendo che occorre eliminare dal proprio cuore qualsiasi cosa che potrebbe contagiare negativamente sia i pagani, sia i giudei, sia gli stessi membri della comunità cristiana. Un grado così elevato di attenzione agli altri non è cosa da poco.

Abbiamo tutti, infatti, i nostri criteri di inclusione o di esclusione, di purità o impurità nelle relazioni. Noi stiamo bene con gli amici ma ci teniamo lontano dalle persone per noi insopportabili. Favoriamo quelli che ci interessano e ignoriamo quelli che reputiamo inutili. Possiamo esser gentilissimi sul lavoro con gli esterni e scortesi in famiglia con quelli più intimi. E i nostri criteri di accoglienza o rifiuto sono spesso generati da giudizi arbitrari che ci impediscono praticamente di vivere regolarmente tesi alla salvezza di tutti. Normalmente proiettiamo sugli altri il problema pensando che esso sia esterno, legato alle circostanze o al carattere degli altri. Difficilmente acquistiamo quella lucidità che ci permette di prendere coscienza del fatto che ciò che ci separa dall’altro fondamentalmente è una distorsione del nostro cuore che si chiama amor proprio. Al contrario di Paolo che viveva cercando di piacere a tutti noi continuiamo fondamentalmente a piacere a noi stessi e a cercare noi stessi un po’ in tutte le cose. E non ci rendiamo conto che, se la nostra personalità interiore venisse “esposta” alla luce di Cristo, apparirebbe più o meno indecente quanto un corpo affetto da lebbra.

Non c’è legge che possa guarire da questo male che rende impuri perché separa gli uni dagli altri e alla fine ci lascia nella nostra solitudine. Eppure, dinanzi a tale sconsolante evidenza Paolo non esita ad affermare: diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo. Ciò che era impossibile per la legge è diventato possibile per la grazia di Cristo. Non c’è un obiettivo inferiore a questo nella vita cristiana. Assumere la vita dello stesso Cristo e lasciare che lui realizzi in noi ciò che la legge da sola non può realizzare: la conversione del cuore della ricerca di se stessi al dono di se stessi. E’ questa la testimonianza che il lebbroso deve dare ai sacerdoti del tempio che benché puri all’esterno per la legge erano anche loro nel bisogno di una purificazione interiore possibile solo per grazia.  Il lebbroso che si avvicina a Gesù sa bene che sta violando le prescrizioni dalla legge.

Ma proprio per questo manifesta una fede illuminata. Egli intuisce che in Gesù c’è di più della legge e dicendogli: “se vuoi puoi guarirmi” praticamente riconosce che quello che Gesù vuole, la sua volontà, è più grande e comprensivo di quello che vuole la legge.  Gesù conferma la sua fede dicendo: sì io lo voglio. E quasi questo non bastasse allunga la mano per toccare la sua carne afflitta dal male. Questo contatto fisico tra la mano di Cristo e la carne del lebbroso afflitta dal male esprime l’incontro prima impensabile tra la santità di Dio e l’impurità dell’uomo, di ogni uomo. Non per nulla Gesù ordina all’uomo di dare testimonianza della sua purificazione proprio ai sacerdoti del tempio. Egli deve dare testimonianza del fatto che la legge adesso è compiuta ma in modo inaspettato. Prima la legge doveva certificare quando l’impurità aveva reso impuro ciò che prima era puro. Adesso essa deve certificare il contrario. Il fatto che Colui che è puro, può toccare ciò che è impuro purificandolo, senza diventare lui stesso impuro. Credere a questa possibilità non è meno facile che credere all’esortazione di Paolo: fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo. Si tratta di credere che la nostra interiorità fragile e meschina possa assomigliare a quella di Cristo. Questo pero a partire dall’accettazione del fatto che, al di là di ogni osservanza esteriore, il lebbroso nel cuore sono io. Sono io che ho bisogno di purificazione ed è proprio sul terreno della mia impurità che Cristo mi incontra. Piu riconosco la mia distanza dalla santità di Dio più posso affidarmi alla sua volontà di purificarmi. Non per magia o per merito ma per il mio debole desiderio di imitarlo.