Domenica 4 febbraio 2024 – 5/a

La parola di Dio di questa domenica ci propone due testimonianze contrapposte.  Da un lato vi è quella del sapiente Qoelet che lamenta realisticamente il fatto che la vita dell’uomo è un peso. Il suo lavoro è tutto focalizzato sul salario, spesso inadeguato. Anche il suo riposo è insoddisfacente perché turbato da preoccupazioni. Cosa rimane della vita per chi trova fatica nel lavoro e inquietudine nel riposo?  All’opposto troviamo la testimonianza di Paolo. Egli dice di essere ansioso di spendersi, di farsi tutto a tutti senza condizioni. Il suo operare per il Vangelo, egli dice, non è per un guadagno, non è per un vanto personale e non è per alcun interesse soggettivo. Eppure, non potrebbe farne a meno. Guai a me se non annunciassi il Vangelo. Sarebbe più difficile smettere che cominciare. È come se un’energia lo spingesse ad amare e servire al di là di ogni gusto o preferenza personale.

Quasi prevenendo l’incredulità di chi lo ascolta Paolo stesso si domanda: qual è allora la mia ricompensa in tutto ciò? Quella di annunciare il Vangelo senza usufruire del diritto che ne verrebbe. Perché, spiega San Paolo, agendo nella gratuità io so di non appoggiarmi a me stesso ma di partecipare ad una salvezza che si è fatta presente nella realtà per chiunque voglie credere. È la salvezza annunciata da Gesù nel Vangelo. Egli curava e guariva tutti instancabilmente fino a sera. La notte, tempo di riposo, era per lui occasione di vigilanza e preghiera e nella comunione con il Padre ritrovava il desiderio di rimettersi in cammino e annunciare ovunque il suo Vangelo: la vita eterna, la vita di Dio si fa presente nella vita di chi crede. Tutti siamo chiamati ad accogliere questa bella notizia e fare un passaggio da quella condizione umana descritta da Qoelet come marcata dalla fatica di vivere ad una condizione di vita nuova, libera, lieta e generosa come quella di Paolo.

È davvero possibile? Il fatto è che l’uomo non può vivere pienamente ed essere pienamente felice senza il dono della vita eterna, senza questa partecipazione alla vita di Dio che Cristo annuncia a chiunque abbia fede in lui. Se la mia vita non è eterna, infatti, essa rimarrà una vita misurata, breve come il filo che corre sulla spola. Ma se la mia vita è misurata, allora dovrà essere misurata anche la mia ricompensa, misurato il mio sforzo perché non posso dare tutto del poco che ho, misurato il mio dono perché anch’io ho bisogno di affetto, di attenzione, di stima, di rispetto. Chi non ha conosciuto la rivendicazione, la delusione e il lamento nel suo cuore? Chi non si è ritrovato qualche volta a pensare proprio come Qoèlet circa la fatica di vivere?

Eppure, proprio a noi può accadere quello che ha scosso la vita nel piccolo villaggio di Cafarnao 2000 anni fa. Nella casa di Pietro Gesù compie il suo primo miracolo che illumina la condizione di noi tutti. Si tratta della suocera di Pietro che, unico caso in tutti i Vangeli, si trova a letto febbricitante. La sua, tuttavia, non sembra essere esattamente una malattia. All’arrivo di Gesù i discepoli gli parlano di lei, ma non accennano ad un male particolare. Quando Gesù le si avvicina, del resto, non si dice che la guarì, come per i tanti malati e indemoniati che correvano alle porte della stessa casa di Simone. Si dice che la rimise in piedi, la resuscitò a nuova vita. Solo dopo che la donna si è rimessa in piedi si dice che la febbre si allontanò da lei. Non è impossibile allora vedere nella condizione febbricitane di questa donna l’umanità affaticata di Qoèlet.

La nostra umanità che vuole essere consolata prima di consolare, amata prima di amare, servita invece di servire. Il Vangelo ci raggiunge nella nostra febbre per invitarci a credere che Cristo è risorto, e che per Lui la vita di Dio che è la carità dello stesso Spirito Santo è gratuitamente messa a nostra disposizione e che la nostra partecipazione a questa vita è possibile per un semplice atto di fede. La fede della suocera di Pietro in tal caso si rivela nel suo mettersi in piedi prima ancora che la febbre la lasciasse. Dare fiducia a Gesù significa accettare il rischio di agire contro le proprie voglie e comodità; significa rischiare di operare in perdita; significa rinunciare a misurare e calcolare tutto. Significa accettare quelle mille piccole occasioni quotidiane che ti rimettono in piedi perché ti obbligano ad agire gratuitamente prima ancora di avere il sentimento della gratuità. Ti metti in piedi con la febbre, dando fiducia a Gesù risorto, ed ecco che la febbre si allontana e scopri, come Paolo, che la gratuità annunciata dal vangelo è ricompensa a sé stessa. Questa fede, allora, ti rende sempre più consapevole che il servizio che tu puoi rendere dovunque tu sia non è una fatica, un destino imposto, un inconveniente che ti ruba tempo ed energie. Quel servizio che la circostanza ti chiama a rendere è la ragione del tuo esserci in quella circostanza, è la tua occasione per amare, è la tua opportunità di diventare l’eroe della tua vita. È l’incontro con quella presenza risorta che riempie la realtà e che vuole guarirci tutti da quella febbre che Montale chiamava “il male di vivere”.