17 dicembre 2023 III domenica di avvento / b

Giovanni colloca la prima apparizione di Gesù al di là del Giordano, fuori dai confini di Israele, quasi a suggerire che egli venendo tra noi ha dovuto compiere un esodo al contrario. Abbandonare, cioè, la casa del padre per venire nel nostro deserto e far risuonare in quel deserto un annuncio di salvezza rivolto innanzitutto, come dice Isaia, ai poveri, agli affranti, ai prigionieri. Il riferimento a queste categorie di persone mette in luce come la salvezza comincia dagli ultimi per poter abbracciare tutti, senza esclusioni. Quando Giovanni dice di non essere il Cristo non compie un semplice atto di umiltà ma evidenzia una verità che vale tutti. Egli, pur essendo un uomo mandato da Dio, non è il Cristo, non è colui che possiede la salvezza in maniera tale da poterla donare agli altri.

Giovanni, come ogni altro uomo, non possiede lo Spirito Santo per poterlo donare ad altri. San Agostino ricorda come “l’uomo che pure è stato creato con una carne capace di diventare spirituale, dopo il peccato, è condannato a vedere diventare carnale anche tutto ciò che in lui vorrebbe tendere alle cose spirituali.” Non a caso persino i sacerdoti, i leviti e i farisei che scrutano le scritture per riconoscere il compimento delle profezie sono incapaci di aprirsi all’annuncio del Battista, all’accoglienza dello Spirito Santo. Non meno dei prigionieri e degli afflitti, essi rappresentano la situazione dell’umanità racchiusa nella sua limitante condizione carnale. La cosa è ancor più drammatica, nel loro caso, perché non si accorgono di nulla. La luce che si è accesa a Betlemme e che Giovanni annuncia al Giordano riempie tutto il cosmo ed allo stesso tempo illumina ogni uomo, tocca tutti personalmente. Eppure, essa non si impone da se stessa, come qualcosa di ovvio e risolutivo. Per essere riconosciuta ed accolta essa richiede la fede nel mistero del Natale: nel fatto che non sono io che vado a Dio ma e Dio che viene a me nella mia storia, nella mia carne e quindi anche nella mia umiliazione.

Non a caso essa è annunciata non da un angelo ma da un uomo umilissimo, che invita alla fede: sta in mezzo a voi uno che voi non conoscete. Giovanni annuncia la fede nel mistero dell’incarnazione. Il Messia, la luce, è già in mezzo a noi, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Questo Vangelo troverà il suo compimento a Pasqua quando Gesù si farà presente ai discepoli, stando appunto in mezzo a loro a porte chiuse, come cioè uno che è sempre con noi, anche se noi non ce ne accorgiamo. Perché il nostro cuore si apra al riconoscimento di questa presenza non serve essere giusti o in qualche modo meritevoli ma veri nella nostra povertà. Il Vangelo è annunciato ai poveri, ai prigionieri ed agli afflitti perché nessuno sia escluso, nemmeno coloro che si presumono giusti o soddisfatti della loro vita.

La conversione implica il riconoscimento che c’è uno più forte di ogni altro uomo che viene nel mondo per farci partecipare alla vita divina che è la vita dello Spirito Santo. Ma per questo occorre fidarsi di Lui più che di noi stessi. Non è così facile appoggiarsi ad una forza che non è la nostra. La confessione di Giovanni è descritta con una triplice sottolineatura: confessò di non essere il Cristo, non lo negò e lo confessò, quasi a suggerire che anche Lui ha dovuto lottare contro la tentazione di affermare se stesso, piuttosto che un altro più forte di Lui.  Giovanni, in tutta la sua santità e giustizia, non era il Cristo e non era la luce. Non poteva trovare in sé stesso la salvezza della sua vita. Tanto meno noi poveri peccatori, che per natura diventiamo sempre più carnali, tendenti all’individualismo, all’interesse, alla possessività e a tutto ciò che resiste a sposare lo Spirito Santo, l’amore di Dio, la vita divina. Eppure, questa nostra natura può adattarsi così bene a vivere al di sotto delle sue possibilità, a vivere senza la luce vera della grazia, da non sentire più il bisogno di salvezza. Nelle nostre soddisfazioni possiamo diventare così superficiali da spegnere lo Spirito e disprezzare le profezie, dirà san Paolo.

Gioire, allora, non significa sentirsi banalmente felici come quando uno va al bar e si ubriaca. Gioire sempre significa voler entrare in tutte le circostanze della vita con la fiducia di chi ha creduto che la luce è sempre in mezzo a noi, anche quando non la vediamo. E la luce, fondamentalmente, è gioia liquida. Gioire significa prendere seriamente il vangelo del Natale che annuncia che la vita, ogni vita, è salvata, e’ accolta da Dio e proprio per questo e’ preziosa. Non si tratta di vedere grandi cose accadere in questa nostra vita ma di valorizzarla sempre cercando in essa questa luce nascosta che attende di illuminare il nostro cuore e quindi di rallegrarlo. Sta a noi, conclude San Paolo, fare discernimento in modo tale che in ogni cosa impariamo a perseverare nel bene e a distaccarci da ogni apparenza di male. Dio allora ci custodirà integralmente e per sempre, non solo il nostro spirito e la nostra anima, ma anche il nostro corpo. Anche i capelli del nostro capo.