Domenica 12 novembre 2023- 32/a

La parabola del Vangelo di oggi parla del Regno di Dio come una di lunga attesa che si compie con un giudizio finale nel quale Cristo stesso apre o chiude la porta di ingresso alle nozze per coloro che sono chiamati. Il giudizio appare severo ma occorre sottolineare un dettaglio significativo. Tutte le vergini cedono al sonno. Sarà allora lo sposo stesso che andrà loro incontro facendosi preannunciare da un messaggero che le risveglia. La situazione riecheggia quanto si legge nel libro della sapienza dove quest’ultima è descritta come una realtà personale che si lascia incontrare facilmente. Chi la desidera può anche essere zelante e alzarsi presto al mattino per cercarla, ma alla fine sarà la stessa sapienza che si lascia trovare seduta alla porta di casa. Essa stessa, infatti cerca coloro che ne sono degni e va loro incontro con benevolenza. Insomma, è come dire che l’amore del Signore per noi precede il nostro amore per lui e che il suo desiderio di avere una relazione personale con ciascuno di noi non conosce alcuno ostacolo tranne il nostro rifiuto. Non a caso il rimprovero rivolto alle cinque vergini stolte non è quello di non aver fatto abbastanza o di essere in ritardo. Lo sposo dice loro semplicemente: “non vi conosco”.

Come potrebbe, colui che sa cosa c’è in ogni cuore, dire a qualcuno “non ti conosco”, se non nel caso che questi si ostini a nascondersi dietro una facciata che non manifesta la verità del suo cuore. Per essere degni dell’amore dello sposo non dobbiamo essere particolarmente meritevoli ma piuttosto aperti, recettivi, semplici e veri. Paradossalmente si tratta di superare la resistenza a credere che Dio possa amarci a partire da come siamo e che quindi, la verginità non è quella che Dio trova in noi ma piuttosto quella che Egli stesso crea in coloro che si lasciano da Lui conoscere pienamente. Non a caso il fattore discriminante tra le 10 vergini non è dato da meriti particolari ma dalla loro disposizione interiore. Tutte sono vergini ma non tutte sono sagge. Tutte vanno incontro al signore quando si tratta di esprimere la loro iniziativa. Non tutte sono pronte ad accoglierlo quando è il Signore che prende l’iniziativa di incontrarle.

La saggezza nella scrittura non è questione di studio o di intelligenza ma una disposizione interiore. È saggio chi spera da Dio più che da sé stesso. È saggio chi sa relativizzare le proprie attese, certezze e competenze per attendere una vita ed una fecondità che superano ogni misura umana perché fondamentalmente superano la morte stessa. Tutte le dieci vergini si addormentano e tutte risorgono – dice letteralmente il Vangelo. Il fatto che le sagge avessero preso con sé l’olio in vasi, prima ancora di prendere le lampade, significa appunto che avevano preso in considerazione qualcosa che andava oltre la giornata terrena di questo mondo. L’olio di riserva non aveva un’utilità né immediata e nemmeno certa. Esso nutre dunque una speranza che va oltre l’interesse immediato, che considera l’imprevedibile e che, in fondo, risponde al desiderio di un amore eterno, che supera la morte. Quello che Paolo descrive come la speranza “di essere per sempre con il Signore”.  La stoltezza delle altre ci ricorda che è possibile accontentarsi di speranze più piccole, solo terrene, senza accorgersi che anche la propria capacità di amare si riduce a tutto ciò che è solo terreno.

Sperare in un amore eterno, del resto, tocca profondamente anche il vivere presente. La speranza cristiana è performativa, capace cioè di sostenere e cambiare la vita nel dettaglio di ogni giornata.[1] Essa rende saggi perché insegna a vivere ogni istante, ogni minuto della vita come qualcosa che è connesso ad un destino che lo supera e non solo come qualcosa fine a sé stessa. Piu uno è pieno di speranza meno si ritrova a vivere “tempi vuoti”. La pigrizia, la noia, il ritardo nel fare le cose, la negligenza, in fondo rivelano la stoltezza di chi spera poco perché scommette su obiettivi immediati e su certezze umane. Al contrario la pazienza, la resilienza, la previdenza, la puntualità, la responsabilità anche nelle piccole cose rivelano la capacità di posizionarsi con saggezza nel tempo che passa; saggezza propria di chi ha la grande speranza di arrivare ad un compimento definitivo che è vita eterna, dono che supera le proprie possibilità, accoglienza di Colui che mi conosce nell’amore e non nel giudizio.

Non solo. La grande speranza cristiana è una virtù che fin da ora rimette gradualmente in equilibrio tutta la nostra vita affettiva perché per essa, come suggerisce San Paolo nella seconda lettura, noi impariamo a gestire la tristezza, l’ira e la paura che inevitabilmente caratterizzano la vita in questo mondo. Solo la speranza oltre la morte ti permette di vivere la perdita e la delusione in questo mondo senza “affliggersi” in un dolore sterile; solo la speranza che Dio possa radunare i morti e restituire loro la comunione con Cristo è abbastanza forte per aiutarci a modulare le nostre rabbie ed ostilità che altrimenti tendono a creare separazioni e divisioni definitive, senza speranza appunto. Infine, solo una speranza più forte della morte ti permette di vincere la paura di morire, ti porta a riconoscere con San Paolo che conservare questa vita” non è il vantaggio definitivo” e quindi ti permette di relativizzare tutte le altre paure, soprattutto la paura di amare fino in fondo, di amare nel dono di sé stessi.

[1] Benedetto XVI spe salvi