Domenica 27 agosto

La situazione descritta nel Vangelo di oggi, oltre ad evidenziare l’incrollabile fiducia che la donna pagana mostra nei confronti di Gesù, getta una luce significativa sul mistero del male che agisce nel cuore delle persone e nel mondo. Nemmeno i discepoli che, piuttosto che commossi, sembrano imbarazzati oppure innervositi dalle urla della donna, hanno colto la profondità di questo mistero. Con quella mentalità un po’ magica che caratterizza la religiosità umana, pensano che basterebbe in fondo una buona parola di Gesù per accontentarla. In fondo cosa costa a Dio risolvere un problema o un altro? Non si rendono conto fino a che punto il mistero del male possa attanagliare la persona, demonizzarla appunto, imprigionando la sua libertà e quindi la sua stessa volontà di guarire.

Tutti, prima o poi, ci confrontiamo con questo mistero che chiama in causa la nostra libertà. Sia perché non riusciamo a cambiare noi stessi su un punto qualsiasi della nostra personalità, sia perché non riusciamo ad aiutare gli altri a cambiare. San Paolo esprime sinteticamente questo mistero quando dice che “Dio ha chiuso tutti nella disobbedienza perché a tutti potesse usare misericordia.” Chiudere nella disobbedienza non vuol dire obbligare, ma al contrario rispettare fino all’estremo la libertà dell’altro. Dio potrebbe forzare un cambiamento qualsiasi in chiunque e farne un servo obbediente, ma solo un servo appunto. Nel rispettare la nostra libertà ribelle Dio permette invece che essa si riveli per quello che è: la peggiore prigionia che l’uomo può imporre a sé stesso. Spingendolo ad affermare sé stesso, infatti, essa lo separa dagli altri e lo rende fondamentalmente incapace di relazione. L’insistenza della donna che intercede per la figlia non sottolinea soltanto la sofferenza di quest’ultima ma anche quella della madre che non può più relazionarsi con lei.

Per quanto paradossale la cosa possa sembrare, la condizione della ragazza indemoniata rappresenta la condizione in cui il più onesto degli uomini si ritroverebbe se pensasse di poter salvare la propria onestà a partire dai propri meriti. Ci si chiude nella propria disobbedienza, infatti, non solo quando il demonio ci possiede ma anche quando siamo così sicuri della nostra “giustizia” da smettere di ascoltare gli altri, di lasciarci correggere, di relativizzare il nostro punto di vista, insomma, di crescere e cambiare. Quando Gesù dice che è venuto a cercare le pecorelle perdute di Israele sta dicendo che la grazia è data a chiunque cessa di presumere di sé stesso e riconosce la sua realtà esistenziale di peccatore, cioè di persona che sa bene che, lasciata a sé stessa, tende a “perdersi”.

L’uomo su questa terra non possiede ancora la propria libertà, ma può liberamente scegliere di appoggiarsi all’unico che, essendo più forte del male, vuole restituirgliela. Nessuno può essere salvato se non nel perdono dei suoi peccati.[1] Per acquisire, tuttavia, una consapevolezza esistenziale circa il fatto che siamo peccatori e che quindi la salvezza non ci è dovuta ma ci è donata, non bastano le buone intenzioni. Essa, come per la donna pagana, si acquista soltanto attraverso l’accettazione di quelle circostanze che, lavorando dolorosamente la nostra personalità interiore tendenzialmente autoreferenziale e quindi chiusa nella disobbedienza, la rendono finalmente docile ed accogliente alla grazia. In particolare quelle circostanze caratterizzate da silenzi, rifiuti ed umiliazioni. Chissà quante volte la donna del Vangelo, come tante altre madri, ha dovuto sopportare l’incomunicabilità o l’indifferenza della figlia, i suoi rifiuti e le sue ribellioni e soprattutto i suoi atteggiamenti aggressivi ed umilianti. Forse proprio per questo il silenzio ostinato di Gesù, il suo rifiuto iniziale ad accontentarla e il suo commento potenzialmente umiliante circa il pane strappato ai figli non scoraggiano la sua fiducia. Dinanzi all’indifferenza, al rifiuto e all’umiliazione possiamo aggrapparci al nostro orgoglio e rinchiuderci in noi stessi e quindi nella nostra disobbedienza. Oppure possiamo aprire gli occhi sul fatto che il male è un problema innanzitutto relazionale e che esso tocca tutti. Che la salvezza dal male non dipende dalle risorse di chi ha ragione oppure di chi è più bravo ma dalla fiducia di chi è più umile e accetta di appoggiarsi ad uno più forte di tutti e quindi più forte del male. Che non si tratta semplicemente di salvare se stessi e la propria libertà ribelle, ma di intercedere per tutti, per un mondo ferito da tanti mali che distruggono la fraternità e ogni relazione. E che spesso l’unico modo per ottenere qualcosa di buono, e persistere nel cercare il bene di coloro che ci fanno soffrire con il loro rifiuto e il loro disprezzo, e continuare ostinatamente ad intercedere, come fa la donna del Vangelo, per quello che, in fondo, è il più grande miracolo della vita: il cambiamento del cuore, la vera libertà del cuore.

[1] San Leone Magno