Domenica 12 marzo Quaresima III/a

Nel loro cammino attraverso il deserto gli israeliti si ritrovano a sperimentare la mancanza di acqua. Poiché quello dell’acqua è un bisogno primario per la vita di ogni Israelita, dei suoi figli ed anche del suo bestiame, esso è più immediatamente associato con la sopravvivenza. La mancanza di acqua allora diventa l’occasione per gli israeliti non solo di protestare ma di mettere in dubbio la loro fede e tutta la storia che Dio ha fatto con loro in precedenza.

Essi, dunque, si interrogano: ma allora Dio è in mezzo a noi oppure no? In altre parole, se Dio è davvero in mezzo a noi, perché succede questo? E perché succede proprio a me?

I fatti della vita inevitabilmente sono ambigui e suscitano il dubbio circa l’esistenza o l’affidabilità di Dio che della vita e’ l’origine. Un tale dubbio smaschera il fatto che quella che noi chiamiamo fede in realtà spesso è soltanto religiosità naturale; quell’atteggiamento, cioè, per il quale guardiamo Dio come garante di bisogni solo umani e quindi fondamentalmente come una “forza” al mio servizio. Dimentichiamo allora che Dio non è garanzia ma provvidenza e che, in quanto amore provvidente, Egli non si pome al di sopra della mia storia e delle sue circostanze, ma al suo interno. Per la fede, dunque, le risposte che contano non sono quelle che mi aiutano a capire ma quelle che mi aiutano a vivere e ad amare.

L’interazione tra Gesù e la samaritana, allora, descrive proprio un percorso dalla religiosità naturale alla fede. La fede di coloro che adorano in spirito e verità. Coloro cioè che adorano Dio non a partire dalle loro paure, ansie, bisogni o sensi di colpa ma a partire da quello che Dio stesso e’: una realtà personale che vuole farmi partecipe della sua vita. Una pienezza di vita che sola può rispondere al desiderio più vero e profondo del mio cuore, come l’acqua risponde alla sete dell’uomo.  La fede allora è quella inziale apertura del cuore per la quale la relazione con Dio diventa non un dibattito mentale ma un incontro che si approfondisce, una relazione che riempie la vita, una luce che è capace “di dirmi tutto quello che ho fatto”. Una luce cioè che mi rivela il senso delle cose, la grazia che si nasconde dietro ai fatti contraddittori della mia vita e che quindi è capace di rimandarmi alla mia stessa vita con più responsabilità e più allegrezza. Proprio come la Samaritana che lascia tutto al pozzo e corre dai suoi ad annunciare la scoperta di Qualcuno che vale più delle cose.

Tutti sono evidentemente chiamati a questa fede e Gesù preannuncia ai suoi discepoli un frutto abbondante come le messi mature di grano. Eppure, non è nella massa che matura la fede, ma nel cuore del singolo, che viene cercato ed amato da Cristo con lo stesso amore che questi può avere per l’universo intero. La solitudine dell’incontro tra Cristo e la samaritana ricorda che Gesù non cerca consensi: egli cerca me, la concretezza della mia persona, del mio cuore. Tra le mille galassie dell’universo Cristo si interessa al mio destino. E mi ricorda che non esiste mai un luogo oppure un attimo della mia storia dove io sono solo e Dio non c’entra.

Anche se fossi – direbbe Paolo – il solo debole, il solo empio, il solo peccatore Cristo morirebbe per me. Magari c’è chi si sacrificherebbe per un solo giusto o per un solo nobile. Ma donarsi per uno solo come la Samaritana che è un’estranea, una che non ha la fede di Israele e che è peccatrice, implica una gratuità assoluta ed una generosità immensa. In Cristo Dio mi cerca, mi incontra e mi salva personalmente. D’altra parte, io non credo mai solo per me stesso ma anche per tutto un popolo. Nel senso che quella roccia che doveva dissetare Israele nel deserto e che si concretizza nella persona di Cristo al pozzo di Sicar per la fede si estende al mio stesso cuore che è chiamato a diventare esso stesso non solo contenitore dello Spirito Santo ma sorgente che zampilla per tutti, dono per altri, testimonianza per la città intera. Se credo che l’acqua possa scaturire dalla roccia, posso credere che lo Spirito possa scaturire dal mio cuore. In fondo se la mia vita non evangelizza, non dona vita ad altri, essa rimane un pozzo senz’acqua. L’insistenza di Papa Francesco circa l’urgenza di diventare una chiesa in uscita presuppone questo incontro personale con Cristo.

Per la fede Dio ci chiama a credere che tutta la realtà, che spesso appare “rocciosa” perché non puoi cambiarla a tuo piacimento, è impregnata di vita divina che noi non conosciamo e che attende di sgorgare proprio da quella dura realtà. L’accesso a quest’acqua che si chiama grazia è Cristo stesso, dirà Paolo. E per questa grazia “noi stiamo in piedi” conclude l’apostolo. La realtà quotidiana nella quale “noi stiamo” può apparire spoglia e povera. La fede ti invita ad accogliere questa realtà così spoglia come se fosse Gesù stanco seduto al pozzo che ti chiede da bere. Ogni circostanza cioè interpella la tua disponibilità ad amare, a dare qualcosa di quello che puoi dare. Non ci sono circostanze che ti “disturbano”. Ci sono circostanze che ti decentrano. Ti dispongono ad amare. Se, in tali circostanze, rischi un dialogo con Cristo, ecco che in essa si apre un ingresso, un accesso ad una vita più profonda che non conoscevi prima: la grazia, cioè la vita dello Spirito Santo. E ti accorgi che per quella grazia e solo per essa tu resti in piedi.