14 settembre 2020 – Solennità dell’esaltazione della Croce

L’esaltazione della Croce illumina pienamente la risposta che Gesù offre a Nicodemo durante la notte, quasi a sottolineare l’inquietudine della sua ricerca che è poi l’inquietudine del cuore di ogni uomo: che cosa può veramente salvare la mia vita? Che cosa da senso a quello che faccio e può promettermi la gioia di realizzare qualcosa per cui valga la pena anche soffrire e morire? Le parole di Gesù a Nicodemo da un lato mettono in luce una impossibilità da parte dell’uomo, dall’altro indicano una possibilità offerta da Dio.

Nessuno è mai salito al cielo. Tradotto in termini esistenziali ciò significa che nessuno è mai andato oltre il suo limite. Nessuno da sé stesso può garantire salvezza alla propria vita, salvezza dal dolore, dal peccato, dal fallimento e finalmente dalla morte. Questa è l’impossibilità dell’uomo. La promessa di Dio invece è legata alla missione del figlio suo. Gesù proclama tre verità: Dio ama il mondo “tanto”, cioè senza limitazioni. Dio non vuole che nessuno si perda, cioè viene a cercarci nel nostro limite. Dio vuole donare la vita eterna a chiunque crede cioè vuole espandere la nostra vita al di là di ogni nostro limite, vuole insomma che saliamo a quel cielo dal quale il figlio è disceso fino a noi.

La Croce allora viene innalzata per mettere in luce il fatto che la disposizione essenziale per corrispondere a questo amore non è la riuscita ma è la fiducia e che la disposizione che meglio esprime la fiducia è l’umiltà. La croce ci ricorda che il limite nella vita non va semplicemente evitato, scartato, temuto ma piuttosto attraversato, vissuto responsabilmente e, anzi, valorizzato come luogo privilegiato per l’incontro con Cristo e con la sua grazia. Il racconto del libro dei numeri, d’altra parte, ci ricorda che siamo costantemente tentati di trascurare questa verità semplice ma controintuitiva. I serpenti infuocati che mordevano gli israeliti non erano creature materiali. Mosè deve fare di essi un’immagine di bronzo da guardare proprio per rendere visibile ciò che altrimenti sarebbe rimasto invisibile.

Gli israeliti non “vedevano” che dietro ai loro desideri di un pane più gustoso, di un cammino diverso, di una storia più facile di quella che Dio sembrava aver predisposto per loro nel deserto, vi era la ricerca di una falsa felicità che alla fine avrebbe avvelenato la loro vita e l’avrebbe tenuta prigioniera della morte. Essi, d’altro canto, guardando attentamente il serpente di bronzo, dovevano comprendere che ciò che appariva come punitivo nella loro vita in realtà poteva essere occasione di una vera guarigione del cuore e che Dio era capace di tirare un bene anche dai loro peccati e dei loro fallimenti in cambio di un semplice atto di fiducia.

Tutto ciò diventa ancora più comprensibile meditando le parole di San Paolo ai filippesi. Gesù liberamente ha deciso di non considerare la sua condizione divina “un possesso” e quindi ha deciso di farne “un dono” per noi; egli ha scelto di svuotarsi di ogni gloria esteriore per avvicinarsi all’ultimo degli uomini e in quanto uomo ha scelto di umiliarsi nell’obbedienza al padre fino alla morte di croce. Con questa sua libera decisione di amore egli rivela praticamente cosa significhi evitare il pericolo e l’inganno dei falsi beni terreni e cosa significa scegliere l’abbandono alla volontà del padre e l’umiltà come via verso la salvezza e quindi la partecipazione al vero bene che è la vita eterna. Chi sulle orme di Cristo procede nella direzione della gratuità e dell’umiltà, del distacco da ogni possesso egoistico e da ogni vanagloria, dell’amore e del servizio, come Cristo otterrà a livello spirituale maggior dominio e libertà come pure maggior gloria e pienezza di vita. Il serpente di bronzo mostra come sotto la legge la guarigione esiga di crocifiggere la colpa. La croce rivela la straordinaria verità che l’innocente ha preso il posto della colpa e che per grazia noi siamo salvati.