26 ottobre 2025 – 30 domenica anno c

Alla fine della sua vita Paolo rivede il tempo trascorso e soprattutto il suo impegno per il Vangelo. A questo punto avrebbe potuto vantarsi delle proprie realizzazioni e denigrare il venir meno di molti suoi collaboratori. Al contrario, egli perdona questi ultimi raccomandando di non tener conto della loro inconsistenza e lascia al “giusto giudice”, che è Cristo, il giudizio finale sulla sua persona. Di sé stesso egli può dire di aver combattuto la bella battaglia, di essersi, cioè, impegnato per obiettivi difficili ma significativi e quindi di aver vissuto in un certo senso eroicamente non comodamente. Può dire di aver completato la corsa. Non si vanta di essere arrivato primo o di aver vinto ma semplicemente di non aver lasciato le cose a metà, di non aver risparmiato energie, di aver giocato secondo le regole. Finalmente puoi dire di aver conservato la fede, cioè di essersi appoggiato fino all’ultimo non a sé stesso – nonostante la fama e i successi – ma all’amore di Cristo e alla sua promessa di salvezza.

Insomma, alla fine della sua vita, Paolo è convinto che la misura della sua giustizia non dipende da quello che ha fatto per Dio ma piuttosto da quello che Dio ha fatto per Lui: mi ha strappato dalla bocca del leone. Egli ha compreso che lo sguardo di Dio sull’uomo non è quello di chi vuole certificare i giusti ma piuttosto quello di chi vuole giustificare i peccatori, coloro che magari pur avendo agito correttamente, riconoscono umilmente che da se stessi non sarebbero altro che prede già in bocca al leone, a quel nemico della natura umana che può facilmente ingannare e dare la morte.

Questa consapevolezza di Paolo aiuta a comprendere l’insegnamento del Vangelo, dove Gesù narra una parabola esplicitamente rivolta a coloro che pensano di essere giusti e disprezzano gli altri. Essa mette in luce come il presupposto per essere innalzati alla condizione di giusti è proprio quella di rinunciare ad arrivarci da soli e di cercare invece di abbassarsi nel riconoscimento della propria debolezza. Questo, tuttavia, nella certezza che Dio ama innalzare e mai schiacciare i piccoli che si rivolgono a lui.

L’uomo perbene, naturalmente, può anche compiere azioni giuste come il fariseo della parabola. Ciò di cui non si rende conto è che, qualsiasi atto di giustizia umana o di virtù, separato dalla consapevolezza che esso è stato compiuto solo con l’aiuto di Dio, genera un sottile autocompiacimento che inorgoglisce il cuore e quindi lo rende incapace di “conservare la fede”, di rimanere aperto alla grazia, di relazionarsi con Dio e quindi anche con gli altri in termini di amore e di sincerità. Il fariseo, attribuendo a sé stesso il merito per ciò che è stato capace di fare finisce per disprezzare tutti gli altri e finalmente per giudicare il pubblicano accanto a lui.

Questo scivolamento dall’orgoglio al disprezzo e finalmente al giudizio è più facile di quanto si pensi e porta inevitabilmente a relazionarsi con gli altri in termini di presunzione, di pretesa, di confronto, di giudizio senza amore e senza misericordia. Del resto, anche qualora un uomo avesse agito da giusto, non può mai dimenticare che non è lui il giudice e che egli rimane sempre, come tutti, dalla parte di coloro che si affidano al giudizio di Dio, di coloro che salgono al tempio non per rivendicare la propria giustizia ma per riceverla da Dio.

Il pubblicano della parabola, dal canto suo, proprio perché vede il proprio peccato e non si percepisce giusto per sé stesso, si dispone ad accogliere quella grazia che Dio non rifiuta mai all’umile, come ricorda il libro del Siracide. La grazia appunto che innalza chi si è abbassato, che fa crescere chi è piccolo nella virtù, che rafforza gradualmente il debole, che incoraggia e rialza chi è caduto e si appoggia a Dio. La grazia che rimanda alla vita di ogni giorno giustificati, più che giusti, testimoni cioè della misericordia di Dio che vuole che tutti si convertano e siano salvi.