7 luglio 2024 – XIV domenica anno B
Nel libro del profeta Ezechiele si legge che lo spirito entrò in lui e lo mise in piedi. Lo sollevò, cioè, da una posizione di debolezza non meglio descritta e lo dispose a compiere una missione improbabile: quella di richiamare all’obbedienza un popolo abituato ad agire di testa propria e quindi tendenzialmente ribelle. Dio, dal canto suo, non farà nulla per forzarli a cambiare. Che credano o che non credano, conclude la profezia, non ci sarà un’occasione di salvezza diversa da questa: la testimonianza di un profeta che sta in mezzo a loro, che cioè condivide in tutto la loro realtà di ogni giorno e con parole umane annuncia loro la salvezza di Dio. La situazione è rivelatrice. Essa mette in luce il fatto che Dio benché capace di portenti, sceglie normalmente di salvare le persone, non attraverso cose straordinarie ma attraverso mediazioni umane. Attraverso persone e circostanze così prossime e quotidiane che, se da un lato possono essere prese per mediazioni di Dio, dall’altro potrebbero anche essere disprezzate e lasciate da parte.
E questo che succede a Nazareth. Gesù parla con grande sapienza ma non ha altri titoli che lo differenzino dai suoi concittadini e gli diano un’autorità divina. Di fatto, in quell’occasione, egli mette in luce l’esistenza di un atteggiamento che non riguarda solo i nazareni ma potenzialmente ogni uomo: la tendenza a scandalizzarsi proprio di ciò che nella vita potrebbe avere un valore salvifico. La tendenza ad inciampare proprio in quelle cose che invece Dio vorrebbe usare, nella nostra vita, come un gradino per andare più in alto, come un invito a considerare orizzonti più vasti, come un’opportunità per uscire da abitudini negative dominate dall’orgoglio e dalla autoreferenzialità. Come un richiamo, insomma, a rendersi veramente docili alla volontà di Dio, obbedienti invece che ribelli, credenti invece che diffidenti e pieni di giudizi.
La resistenza degli abitanti di Nazareth a credere era così ostinata da stupire lo stesso Gesù. Eppure, questa particolare pedagogia che Dio usa per chiamarci a salvezza non esige cose eccezionali o difficili ma l’amore al reale. Essa ci invita a credere che la nostra quotidianità, come quella dei nazareni che essi presumevano di conoscere fin troppo bene, proprio quella quotidianità è potenzialmente salvifica. Ma lo diventa di fatto solo se guardata e vissuta con uno sguardo di fede. Se, cioè, impariamo a riconoscere che essa contiene più di quello che appare in superficie o che corrisponde a supposizioni e calcoli solo umani. Per capire meglio cosa implichi questo sguardo di fede e questo amore al reale occorre rifarsi all’esperienza di San Paolo nella lettera ai corinzi.
Anche lui in un certo senso è stato tentato di scandalizzarsi, come i Nazareni, di fronte al fatto che Dio non sembrava intervenire nella realtà che egli viveva. Tre volte insistentemente Paolo chiedeva a Dio di risparmiargli una non meglio precisata spina nella carne. Poteva essere una malattia, un fastidio, una relazione difficile, una sofferenza morale o psicologica, comunque qualcosa di reale che, secondo lui, gli impediva di essere pienamente felice ed efficace anche nel servizio di Dio. La risposta che riceve è sconcertante un po’ come la risposta di Gesù ai Nazareni. Gesù, infatti, non soddisfa le attese di San Paolo come non aveva soddisfatto quelle dei nazareni. Gli dice semplicemente: la mia grazia ti basta. La forza della mia vita risorta, infatti può tenerti in piedi anche con la tua spina nella carne ed anzi ti dico che è proprio in questa tua debolezza che la mia forza risplende al meglio come mia e non come tua, come dono e non come conquista, come servizio all’amore e non come compensa legata ai tuoi meriti o capacità personali.
Paolo accetta la lezione. Alla fine, riconosce che quella debolezza gli permette di rimanere umile e che questa è la condizione per amare gli altri più di se stesso. Non solo. Egli riconosce come di fatto tutto ciò che appartiene alla realtà, anche le cose più contraddittorie, tutto va accolto ed amato come salvifico e non semplicemente sopportato come un inconveniente momentaneo. Bisogna amare la realtà tutta intera così come essa è, come luogo di salvezza. Al punto, continua San Paolo, di vantarsi delle proprie debolezze, degli insulti o delle umiliazioni, delle necessità, cioè di tutto ciò che ci è negato dalla vita o che ci viene a mancare perché ci viene strappato via. Tutto, se affidato a Dio, può diventare occasione di salvezza, e quindi di gloria e di vanto. Perfino la persecuzione che spesso viene anche dai buoni e qualsiasi altra limitazione possono condurre a salvezza. È quando sono debole, conclude San Paolo, è proprio allora che sono forte. Quando nella mia debolezza continuo a credere all’amore di Dio e ad affidargli la mia vita proprio allora divento più accogliente a quella grazia divina che mi permette di vivere in un modo che non sarebbe possibile se Dio non fosse presente proprio lì dove sono io, proprio lì in mezzo alla mia vita.