Domenica 7 agosto 2022 – 19/c

Nel Vangelo di oggi Gesù sembra voler mettere insieme due cose apparentemente inconciliabili: una fede totale e incondizionata nella provvidenza di Dio con un grande senso di responsabilità circa il proprio piccolo dovere quotidiano. Si tratta da un lato di saper chiudere gli occhi e abbandonarsi circa il futuro – vendete ciò che possedete e cercate tesori nel cielo; dall’altro di tenerli bene aperti circa il presente ad ogni istante: siate come gente che hanno i fianchi cinti e le lucerne accese.  Per fede siamo chiamati a custodire la libertà da ogni ansia e paura: non temere piccolo gregge. Per la stessa fede siamo chiamati a coltivare la consapevolezza ed il senso di responsabilità per il molto che ci viene affidato e di cui giustamente ci verrà chiesto conto. La vita che abbiamo non è semplicemente “nostra”. È un grande bene a noi affidato e – consapevoli o meno di tale affidamento – dice il Vangelo essa è talmente impregnata di risorse, di energie vitali, di amore e di bene da meritare un’utile punizione per chiunque l’abbia sprecata o disprezzata. Il molto a noi affidato non è solo ciò che vediamo e tocchiamo, che in effetti può sembrare quasi trascurabile come un piccolo gregge nell’immensità dell’universo. Gesù ci chiama a credere che insieme alla vita noi riceviamo non solo ciò che ci appartiene come umanità ma anche il Regno di Dio, cioè tutto ciò che appartiene a Dio.

Sembra un’esagerazione; eppure, Gesù dice proprio così: al Padre è piaciuto, non semplicemente custodire il suo piccolo gregge, ma affidargli il suo Regno. Gli è piaciuto esprimere proprio attraverso la fragilità, la precarietà, l’insignificanza di un piccolo gregge niente meno che la sua onnipotenza. Nella misura in cui crediamo a questa possibilità ne facciamo esperienza come l’ha fatta Abramo.  Egli, dice la lettera agli Ebrei, parti senza nemmeno sapere dove andava e non esitò ad offrire suo figlio in sacrificio a Dio perché credeva che questi potesse risuscitare dai morti, che cioè la sua onnipotenza potesse trarre la vita dalla morte, il bene dal male, la vittoria dall’apparente sconfitta. Abramo credette, insomma, che nelle circostanze della storia Dio si fa presente come “provvidenza”. Questa provvidenza, che si manifesta soprattutto a coloro che credono, non è un’assicurazione sulla vita ma una forza interiore che permette anche ai piccoli di affrontare proprio le insicurezze della vita e di rischiare laddove i grandi esiterebbero. La fede non è semplicemente uno sguardo ottimistico sulla realtà ma uno sguardo integrale, uno sguardo che sa tenere conto di tutti i fattori. Non solo delle circostanze misurabili ma anche – dice la lettera agli Ebrei – di ciò che è invisibile e di ciò che è solo promesso. Questo sguardo sulla totalità dei fattori che operano nella realtà ti porta a pensare, a parlare e ad agire con quella sicurezza e libertà interiore, con quella prontezza e lucidità, con quella liberalità che altri esprimono solo occasionalmente quando si sentono le spalle perfettamente al coperto. È per questo, dice il libro della sapienza, che il popolo di Israele, anche durante il suo esilio babilonese, conservava la sua fede nella promessa di liberazione che Dio gli aveva fatto. Questa fede permetteva al popolo di gioire anche nella sofferenza, di condividere i loro beni anche nella precarietà, di intonare canti di lode al signore anche in circostanze avverse e di offrire sacrifici nel segreto, cioè nei loro cuori e nelle loro case, poiché il tempio era stato distrutto. Ciò significa che tutta la loro vita, diventava un’offerta Dio, una sorta di sacrificio spirituale, uno spazio offerto a Dio perché il suo Regno potesse manifestarsi anche nella precarietà dell’esilio.

Chi vive con questo atteggiamento di attesa e di fiducia in Dio non cade nel fatalismo o nel fideismo ma al contrario compie ogni cosa, piccola o grande che sia, con quella attenzione, quella cura, quella sollecitudine che appunto chiamiamo responsabilità. Non la responsabilità opprimente di chi pensa di dover risolvere tutti i problemi e a tutti i costi. Si tratta piuttosto di quella responsabilità serena e tranquilla di chi ha fede e crede che la propria piccolezza è utile al Regno di Dio e che la propria fedeltà nelle piccole cose ha un valore immenso ai suoi occhi. Chi è il servo saggio e fedele – ricorda Gesù nella parabola del Vangelo – che il padrone troverà a dare un pezzetto di pane ai compagni di lavoro nell’orario stabilito? Si tratta semplicemente di mostrarsi attenti innanzitutto “ai nostri compagni di lavoro”, a coloro che sono stati a noi affidati. E di farlo all’orario convenuto, cioè con quella fedeltà ripetitiva, abitudinaria, quasi scontata che però preserva il bene comune. Per poi scoprire alla fine della vita che l’unica cosa che potrà metterci in imbarazzo non sarà la nostra piccolezza o mediocrità ma la generosità e liberalità di colui che “non si vergogna di chiamarsi loro Dio” (Ebrei) e di affidare ai suoi servi fedeli tutti i suoi averi: il suo regno appunto.