Domenica 13 agosto – 19/a

Chiunque si determini nel suo cuore a cercare la volontà di Dio e a vivere la sua vita in conformità al Vangelo farà presto esperienza che la sua fede è costantemente provocata e messa alla prova dalle circostanze della vita. Mentre la fede, infatti, ti porta a credere che Dio è sempre attivo e provvidenzialmente presente nella realtà, le circostanze concrete spesso suggeriscono esattamente il contrario. Paolo ammette con tristezza che il popolo ebreo, pur essendo il primo depositario delle benedizioni e delle promesse di Dio, non si è mostrato accogliente alla loro realizzazione. Paolo è lacerato interiormente da questa contraddizione. Perché non accolgono il dono? Perché resistono e non cambiano? Perché Dio non folgora tutti con l’evidenza del suo potere e si mostra invece così debole nel realizzare le sue stesse promesse?

Nessuno può sfuggire a questa lacerazione interiore. Le promesse di Dio non si realizzano secondo le nostre aspettative e nessuno, per quanto salda possa essere la sua fede, può sfuggire al dubbio che ciò che Dio promette possa restare irrealizzato e quindi rivelarsi un’illusione. Anche il profeta Elia si è trovato a sperimentare questa fatica di credere. Reduce da un lungo cammino per sfuggire alla regina Ghezabele che vuole ucciderlo Elia cerca rifugio in una grotta. Dio lo invita ad uscire e attendere fuori di essa la sua venuta. Ma il profeta sembra troppo impaurito per obbedire. Forse si attendeva una manifestazione potente di Dio ma Dio non viene nel terremoto, né nel vento che spezza le rocce, né nel fuoco. Ecco invece una sollecitazione gentile e discreta come una brezza leggera che lo invita semplicemente ad obbedire al comando iniziale di uscire dalla caverna. A rinunciare, cioè, a ciò che nella realtà doveva “salvarlo”, dandogli rifugio e sicurezza, per mettersi invece in un atteggiamento di fiduciosa disponibilità a collaborare a quella salvezza che Dio stesso vuole realizzare nella sua storia.

Questa fatica tutta interiore di Paolo ed Elia a sintonizzare le proprie attese di salvezza con le promesse di Dio che sembrano così distanti dalle situazioni reali, può riproporsi quotidianamente per ciascuno di noi. Ogni giorno, infatti, tutti siamo sempre di nuovo richiamati a credere che Dio si fa presente non nelle nostre attese, previsioni o calcoli, ma nella nostra fiduciosa disponibilità ad affrontare la realtà così com’è. Ciò significa credere che essa è il luogo in cui Dio ci salva, non risolvendo tutti i nostri problemi ma insegnandoci a camminare sulle acque, cioè a fidarci di Lui anche quando il cuore dubita. Non è facile perché, quando le circostanze sembrano avverse o contraddittorie, siamo portati a credere, come i discepoli nella tempesta, non solo che Dio sia distante ma che addirittura Egli possa essere contro di noi, un fantasma spirituale che non aiuta, ma giudica, condanna, mette in risalto la tua impotenza.

E in fondo i discepoli sul lago avevano probabilmente buone ragioni per spaventarsi. Essi, infatti, non volevano salire in barca per quella traversata. Lo avevano fatto solo per l’insistenza di Gesù e quindi per obbedienza a lui che resta invece da solo sul monte a pregare. Trovandosi, quindi, in quella situazione pericolosa non potevano che domandarsi: perché accade questo se abbiamo obbedito? perché questa prova se stiamo facendo la volontà del nostro maestro? La fiducia che avevano dato a Gesù, la loro fede in Lui, non aveva aperto per essi un cammino sicuro e confortevole ma un passaggio attraverso circostanze che sembrano sfuggire ad ogni controllo, anche a quello di Dio. Ma è proprio questo il punto. La fede in Gesù non è un amuleto porta fortuna. È un invito a camminare sulle acque. A lasciar andare il nostro bisogno di sicurezze per fidarci di Dio senza altro appoggio.

E questo è possibile solo quando impariamo ad affrontare la paura del male e della morte. Finché questa paura domina il nostro cuore non possiamo vivere nella piena libertà ed amare nella gratuita. La paura della morte fa apparire l’altro come una potenziale minaccia per la propria vita e quindi un competitore. Anche Gesù appare agli occhi spaventati dei discepoli come una minaccia piuttosto che un soccorso.

Ma e’ solo passando attraverso questa esperienza di paura e solitudine che i discepoli imparano che la fede non c’è data semplicemente per sopravvivere in questo mondo come tutti gli altri ma per viverci consapevoli della nostra natura divina, del nostro essere figli di colui che ha dominio su ciò che l’uomo da solo non può controllare: il male e la morte. In tal senso chi crede impara davvero, come Pietro, a vivere differentemente. Non senza problemi ma senza l’angoscia di chi non crede ci sia una salvezza a misura dei dubbi più seri del suo cuore. La salvezza sta nel lasciarsi prendere per mano da uno più forte dei nostri dubbi. Allora scopriamo, come scrive Hadjadj, che la fede non è la soluzione ma l’avventura. Un’avventura oltre il male e la morte.