18 giugno 2023 – Domenica XI/a
La prima cosa che colpisce nel Vangelo di oggi e lo sguardo compassionevole di Gesù sulla folla. Non si tratta di semplice emotività o di pietà umana ma di una partecipazione intima del figlio di Dio alla nostra condizione umana. Per Gesù la folla non è un aggregato anonimo ma una realtà che gli appartiene e a cui sente di appartenere come un pastore con il proprio gregge. E questo senso di reciproca appartenenza è definito da un amore gratuito che porta Gesù a considerare non come quel gregge poteva pesare su di lui ma come le circostanze della vita, la sofferenza e il male potevano pesare sul gregge. Egli vede che sono pecore affaticate ed oppresse, anche se non innocenti, e vede che non possono prendersi cura di sé stesse ma necessitano appunto di un pastore.
Questo sguardo misericordioso e disponibile di Gesù verso la folla riflette lo sguardo del Padre su Israele. Vedendolo perduto nel deserto gli dice: tu mi appartieni perché io ho portato il tuo peso come un’aquila porta i suoi piccoli sulle sue ali e voglio fare di te un Regno, un sacerdozio è una nazione Santa. Una realtà comunitaria cioè che si distingue all’interno di una umanità che tendenzialmente procede nella direzione opposta; quella che San Paolo descrive con quattro termini gradualmente più severi: eravamo deboli, empi, peccatori, nemici. Deboli perché incapaci di regnare, di dominare su ciò che diminuisce la nostra libertà. Empi perché incapaci di quella pietas che fa nascere la compassione e il senso di appartenenza ad un altro. Peccatori perché chi crede di appartenere a sé stesso usa il mondo per sé stesso e per il proprio interesse ed è incapace di vivere in modo sacerdotale, cioè usando delle cose del mondo, del lavoro, dei beni come dei doni da distribuire gratuitamente. E finalmente eravamo nemici di Dio, ostili nei confronti di chi ci chiama alla verità, alla giustizia e all’amore e quindi alla santità.
Quando Gesù guarda le folle egli vede tutta questa contraddizione e invece di provarne fastidio o scoraggiamento ne prova compassione. Da questa compassione nasce la sua disponibilità a consegnare la sua autorità di scacciare gli spiriti impuri e di guarire ogni malattia e debolezza ai propri discepoli. Consegnare questa autorità non significa trasmettere ad essi un potere magico, ma piuttosto il suo atteggiamento di disponibilità a morire per tutti, a dare la propria vita nella più assoluta gratuità. Paolo insiste sulla centralità di questa gratuità. Cristo è morto per noi non in cambio di qualcosa, per un giusto, per qualche buona azione o disposizione nostra ma mentre eravamo deboli peccatori e nemici. Non stupisce allora che Gesù mette al centro della testimonianza cristiana non le strategie, l’efficienza, le competenze in qualsiasi campo ma appunto la gratuità. Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date. La tua vita diventa missione quando testimonia la gratuità dell’amore.
Ma la gratuita è proprio quello che è difficile per un peccatore. È necessario, dice allora Gesù, innanzitutto pregare il padre che getti operai nella messe. Nessuno, infatti, si dona spontaneamente come si è donato Gesù. Abbiamo bisogno di una grazia e in un certo senso di una spinta “divina” per entrare nel mondo e nella realtà da operai di Dio piuttosto che da consumatori oppure addirittura da sfruttatori. Questo spiega anche la natura della missione: non andate ai pagani e ai samaritani dice Gesù ma alle pecore perdute d’Israele. Non è tanto questione di discriminare ma piuttosto di capire cosa “viene prima”: se il cuore della testimonianza cristiana è la stessa compassione e misericordia che Cristo ha mostrato verso di noi, allora questa testimonianza cristiana comincia da lì: dall’amare la pecora perduta, quello che tu disprezzeresti, ignoreresti, giudicheresti. Se è questa la prima missione degli apostoli allora si capisce che tutti possono condividerla.
La santità non è fare opere grandi e notorie ma amare dove sei a cominciare da quello che ti appartiene e si è perduto. Essenza dell’amore, dirà Santa Teresina, è sopportare i pesi degli altri, non scandalizzarsi dei loro limiti, rallegrarsi nel loro minimo progresso. Insomma, mai stancarsi di cercare la pecorella perduta. E questo non perché noi siamo migliori di quella stessa pecorella perduta ma perché noi stessi siamo stati cercati e trovati da Cristo. Il fatto che Gesù chiami per nome gli apostoli e scelga anche chi lo tradirà ci ricorda che anche la nostra testimonianza non sarà una marcia trionfale ma un cammino misto a fatica, cadute, esitazioni, a volte impotenza.[1] Il suo frutto allora non dipende dal fatto che noi siamo capaci di qualcosa ma dal fatto che abbiamo per primi accettato di lasciarci perdonare e mandare da chi ha messo la sua vita a nostra disposizione senza condizioni. Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date.
[1] A. Von Speyer