4 giugno 2023 – Santissima Trinità

Il Vangelo di Giovanni descrive brevemente tutto il mistero della redenzione. Dio ha amato il mondo in un modo inaudito. Il suo amore non è un sentimento che risponde ad una certa buona disposizione da parte dell’umanità, oppure ad un qualche merito da parte nostra. L’amore di Dio è una iniziativa del padre che implica una rinuncia eroica. La rinuncia a giudicare. L’amore del padre non parte da una considerazione realistica di meriti, di colpe, di possibilità. Il padre – dice Gesù – non ha mandato il figlio a giudicare il mondo. Il padre ha mandato il figlio nel mondo per far nascere in esso innanzitutto il bisogno della salvezza. E quindi il desiderio della vita di amore. Il mondo infatti è come un sistema chiuso in sé stesso che non conoscendo nient’altro che la vita mondana non si accorge che questa vita è inadeguata e quindi condannata ad esaurirsi in sé stessa. Chi non accoglie il figlio è già condannato, dice Gesù, non dal giudizio di Dio ma dal suo stesso rifiuto che diventa giudizio quasi uno dicesse a sé stesso: in fondo non ho bisogno di nient’altro che di questa vita che già conosco. Chiunque invece crede nel figlio ha la vita eterna, cioè conosce una vita che non è più solo quella mondana ma è una vita che partecipa a quella di cui il Padre è l’origine, e di cui la Trinità è l’espressione.

La differenza fondamentale tra la vita mortale e la vita eterna non è quantitativa, di tempo o di durata, ma qualitativa. Mentre infatti la vita mortale è vita individuale, tendente a preservare sé stessa e quindi inevitabilmente centrata sulla ricerca del piacere oppure della tranquillità, la vita eterna è vita di comunione, cioè relazionale, vita che genera vita come il padre genera il figlio; vita che dona vita come lo Spirito Santo che procede dal padre ed anima tutte le cose. Vita che non cerca sé stessa ma cerca l’altro, gli dà precedenza, in una parola salva invece di giudicare e condannare, come fa il figlio mandato dal padre. La trinità ci ricorda che la condizione per imparare ad amare è uscire dalla nostra solitudine che è data, non dalla mancanza di rapporti, ma dal fatto che questi rapporti sono egoistici, dominati dalla paura di donarci pienamente, oppure dal fatto che il nostro donarci agli altri è pieno di riserve, di condizioni, di giudizi appunto. Il Padre manda il Figlio perché accogliendolo impariamo ad uscire da noi stessi e uscendo da noi stessi e dalla nostra solitudine diventiamo quello per cui siamo stati creati: creature che amano ad “immagine di Dio”, cioè nell’amore del Padre, nella grazia del Figlio e nella comunione dello Spirito.

San paolo descrive esperienzialmente questo modo nuovo di amare con una serie di imperativi che si comprendono meglio a partire dal loro opposto: gioite! Non cedere alla tristezza che ti porta a reclamare amore piuttosto che a donarlo. Tendete alla perfezione: l’amore ha bisogno di crescere piuttosto che di accontentarsi dell’abitudine. Consolatevi gli uni di altri piuttosto che ferire o accusare. Cercate di sentire nello stesso modo piuttosto di affermare il vostro punto di vista. State in pace piuttosto che litigare. Salutatevi con il bacio Santo della pace; amatevi cioè molto concretamente e allo stesso tempo con santità di intenzioni. È questa la vita eterna che è vita relazionale e che il mondo non può conoscere perché possiede soltanto la vita mortale e individuale. Perché allora questa vita non appare sempre con maggiore evidenza nella concretezza delle nostre interazioni? perché questa vita eterna non è un superpotere che ci cambia magicamente ma un invito che interpella la nostra libertà ferita e quindi ci porta innanzitutto, paradossalmente, a prendere coscienza proprio del fatto che noi abbiamo bisogno di salvezza e non siamo capaci di amare. Nessuno cresce nella direzione della vita eterna senza prima rendersi conto che la sua vita mortale, per quanto ideale essa possa sembrare, rimane fondamentalmente inadeguata in sé stessa, condannata alla paura, alla noia, al non senso e nel peggiore dei casi alla delusione, alla rabbia, alla tristezza. Davanti all’invito di Dio a partecipare al suo amore noi siamo tutti come Mosè che sale sul Monte Oreb. Ci avviciniamo a Dio con le due tavole di pietra non ancora incise che ci ricordano la nostra radicale incapacità a compiere la legge. Le due tavole di pietra rappresentano il nostro sforzo quasi sempre inutile di custodire una parvenza di giustizia e di sincerità.

A questo sforzo inutile Dio risponde col suo farsi presente nella nostra vita come colui che salva, colui che usa misericordia di generazione in generazione. La nostra risposta più vera allora a questo invito non è tanto un qualsiasi impegno da parte nostra ma una preghiera umile come quella di Mosè: siamo un popolo di dura cervice. Ma tu fa di noi la tua eredità. Accollati cioè il nostro debito di amore e donaci di partecipare alla gratuita del tuo sovrabbondante amore.