Lc. 6,39-45  VIII Dom. anno C
Continuiamo ad ascoltare il “discorso della pianura” di Gesù. Il vangelo di oggi, riporta delle parabole che riguardano la vita dei credenti nelle comunità, tramite le quali Gesù voleva mettere in guardia i suoi discepoli soprattutto dai comportamenti dei Farisei e Scribi. Luca le attualizza per la sua chiesa, in quanto vi erano fratelli che pensavano di essere migliori degli altri o persino più capaci del loro Maestro.
Comunque sono rivolte a tutti i credenti, in quanto nessuno di noi è esento dal rischio di diventare cieco mentre desidera guidare, aiutare e correggere gli altri: “Può forse un cieco guidare un altro cieco?”.
L’anziana moglie, era intenta a infilare il filo nella cruna dell’ago. Nonostante i ripetuti tentativi, proseguiva con caparbietà, ma la sua debole vista non facilitava il suo sforzo. Il marito allora intervenne, strappandogli sia l’ago che il filo dalle sue mani, dicendo: “Devi ammettere che ormai sei quasi cieca e incapace di fare anche i piccoli lavoretti”. Quindi lui si accinse a infilare il filo nella cruna, ma non si avvide che le sue mani tremano a causa del Parkinson”.
Quando due ciechi si fanno da guida mutuamente, rischiano di farsi del male, trovarsi in una situazione di difficoltà, peggiorando la loro situazione. Cieco sono io quando pretendo di correggere i difetti dell’altro, che a sua volta pretende di correggere i miei. L’altro è lo specchio di me stesso: mi tira fuori ciò che di me non accetto, ciò che mi rende vulnerabile, fragile, peccatore. Quindi, quando non sono capace di tirar fuori il meglio dell’altro, sono cieco.
Chi soffre di miopia vede bene da vicino, ma non da lontano. Chi soffre di presbiopia vede bene da lontano, ma non da vicino. Colui che vede la pagliuzza nell’occhio del fratello o sorella e non la trave nel suo, vede lontano, ma non da vicino. Tutti siamo tentati di non riconoscere le proprie incapacità, errori, difetti, pronti a dare giudizi sulle parole, scelte e azioni altrui. Tentati perfino a governare la vita degli altri decidendo noi cosa sia meglio o no, cosa e come dovrebbe comportarsi l’altro. Ci sentiamo maestri, senza renderci conto che commettiamo gli stessi errori, se non più peggiori, del fratello/sorella.
La favola di Esopo lo evidenzia bene: “Ciascun uomo porta due bisacce, una davanti, l’altra dietro, e ciascuna delle due è piena di difetti, ma quella davanti è piena dei difetti altrui, quella dietro dei difetti dello stesso che la porta. E per questo gli uomini non vedono i difetti che vengono da loro stessi, mentre vedono assai perfettamente quelli altrui”.
Istintivamente siamo sempre pronti a scusarci, ad essere indulgenti e tolleranti con noi stessi, a giustificare le nostre mancanze, attenuare le nostre responsabilità, ma molto più esigenti e severi nel guardare i difetti degli altri, ad ampliarli ed evidenziarli.
Certamente non viene messa in discussione la correzione fraterna, bensì l’atteggiamento altezzoso, dispregiativo, il giudizio, la pretesa di dominare e voler cambiare la vita dell’altro nelle sue mancanze, prima ancora di cambiare le proprie. Spesso la correzione, anziché promuovere conversione, perdono e riconciliazione, produce conflitto, divisione, inimicizia, rottura di dialogo e così finisce per separare invece di favorire comunione.
Voler estrarre la pagliuzza dall’occhio dell’altro potrebbe indicare un generoso intento di aiutarlo, ma può nascondere il rifiuto di affrontare e rimuovere la propria trave. Anche preoccuparci solo della propria trave, riconoscerla, affrontarla, è un modo di chiuderci in noi stessi (con il rischio di cadere nel “perfezionismo”) e non prenderci cura dell’altro. Dovremmo invece prenderci cura gli uni gli altri, nella misura in cui ciascuno si prende cura di se stesso, si esamina e guarda in faccia le proprie travi. In questo modo non ci sentiamo mai giudici del fratello/sorella, di riconoscerci peccatori e solidali con i peccatori, di camminare insieme e correggerci con umiltà, seguendo l’esempio di Gesù, nostro Maestro.
Per pronunciare un giudizio o una correzione sull’atteggiamento del fratello/sorella, è necessario conoscere prima il suo modo di pensare, di parlare e di agire (1° lett.). L’interiorità del fratello/sorella è un santuario che solo lui/lei e Dio conoscono.
Oltre a non giudicare il fratello/sorella, non dovremmo dimenticarci ciò che Gesù ci raccomandava precedentemente nel suo discorso: “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (Lc.6,36).
Il vangelo di oggi, termina con l’immagine dell’albero buono che produce frutti buoni, impossibile da raccogliere nell’albero cattivo. È un criterio valido per discernere il vero dal falso discepolo secondo i frutti che produce nella sua vita. Se nel nostro cuore c’è amore, bontà, misericordia, allora anche il nostro atteggiamento li manifesta. Però occorre non confondere i risultati dai frutti: i primi sono i nostri “meriti”, i nostri trofei, le nostre conquiste, mentre i frutti nascono dalla logica del dono, dell’amore: un albero non mangia il proprio frutto. Noi possiamo mostrarci davanti a Dio e agli uomini con ipocrisia, assumendo un atteggiamento di apparenza, ma il nostro parlare, agire e ragionare svela davvero chi siamo. San Giacomo: “Chi tra voi è saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità” (3,13-14).

Approfondimento
Limone 27 febbraio 2022 – VIII/c
La parabola del Vangelo di oggi si rivolge soprattutto a coloro che si assumono come missione quella di cambiare gli altri ed il mondo, ma senza allo stesso tempo prendersi cura di sé stessi, della propria crescita e del proprio bisogno di conversione continua. Uno cieco che cerca di aiutarne un altro – dice Gesù – farà del male non solo all’altro ma anche a sé stesso perché entrambi cadranno nell’inciampo. La parabola, tuttavia, suscita un interrogativo ancora più radicale: può un uomo rendere migliore un altro uomo? Può davvero un genitore rendere migliore il figlio o un santo rendere migliore il malvagio? Per rispondere lucidamente alla questione occorre tener presente l’insegnamento di san Paolo. Egli afferma che su questa terra noi tutti viviamo in una condizione di mortalità e di corruttibilità. Tendiamo cioè a divenire “corrotti” piuttosto che migliori, anche moralmente. Finché viviamo nel corpo, dunque, non possiamo evitare la morte e quella corruzione che tocca anche il nostro intimo – il vuoto, l’aridità, la sofferenza e tutto ciò che è conseguenza del peccato che appunto della morte è il pungiglione. La cosa è aggravata dal fatto che siamo fondamentalmente ciechi circa la natura del peccato e quindi incapaci di riconoscere ed evitare tale pungiglione. Nessuno, allora, può veramente guidare e rendere migliore un’altra persona. Per crescere e migliorarci noi tutti abbiamo bisogno di appoggiarci ad uno che sia capace di vincere sia la corruzione che la morte. Costui è Gesù che, pur essendo uomo come noi e pur essendo stato costretto ad “ingoiare” una morte che non poteva umanamente “evitare”, ha introdotto una “vittoria” in quella che altrimenti sarebbe stata una storia fallimentare. Questa vittoria per noi che siamo ancora nella nostra corruttibilità, benché non sia’ ancora compiuta è già efficace in chi – continua San Paolo – s’aggrappa a Cristo, non si lascia smuovere da mode peregrine e persevera nel suo piccolo o grande sforzo sapendo che quest’ultimo potrà sembrare ripetitivo, inutile e stancante ma non sarà mai vano. Anche se uno dovesse vivere tutta la sua vita come una grande sconfitta, rimanendo nel Signore, crescerà e finalmente gusterà una vittoria cosi imprevista e sorprendente da potersi prendere gioco di tutto quello che è stato prima: dov’è o morte la tua vittoria e dov’è il tuo pungiglione? Su questa terra, come Gesù, non possiamo sconfiggere la morte senza prima ingoiarla: assumerla cioè liberamente alla fine della vita ma anche ogni volta che dobbiamo affrontare situazioni che sembrano ucciderci: sofferenze, umiliazioni e quel senso di impotenza che spesso accompagna il ripetersi dei nostri peccati. Se entriamo in queste situazioni uniti per la fede alla vittoria di Cristo facciamo esperienza che esse, non solo non ci uccidono, ma anzi ci illuminano, ci fanno migliori, cambiano in effetti la natura profonda della nostra persona cioè il suo cuore. Nella situazione siamo noi che fatichiamo e sudiamo, apparentemente soli e disperati; eppure, nella stessa situazione è presente insieme a noi Cristo come uno vittorioso per il quale – insiste San Paolo – nessuno sforzo, nessun fallimento, nessun tentativo ripetuto è vano. È Gesù allora il solo maestro di vita per tutti noi. Egli guida non verso vittorie parziali o temporanee ma verso la vittoria finale che consiste nel piantare definitivamente l’amore nella nostra natura tendenzialmente corrotta e quindi disporla alla resurrezione. In effetti – dice Gesù- avete mai visto un albero presumibilmente buono che dia un frutto cattivo? Anche uno soltanto? Se si è buoni lo si è interamente, cioè a partire dal cuore e non dai singoli comportamenti. Per questo il libro del Siracide, invita ad esaminarsi su tutto ciò che esce dal cuore: se vigili sui pensieri ti accorgi che sono pieni di giudizio e disprezzo per chi sembra “peggiore di te”; se rivedi le tue conversazioni, ti accorgi che sono piene di difetti se, non di ipocrisia; se ascolti i tuoi “sentimenti”, essi ti riveleranno di cosa è pieno il cuore. Per essere interamente buoni nel cuore occorre risorgere o comunque partecipare sempre più alla natura risorta di Cristo. Solo quando uno ama nello Spirito Santo, solo allora, questi diventa capace di correggere innanzitutto sé stesso e quindi capace di togliere il male che è nell’altro; non semplicemente di vederlo e giudicarlo – questo possono farlo in tanti – ma appunto di toglierlo, cioè non semplicemente di “correggere” ma di aiutare a guarire e a crescere. È questo il frutto della sinergia tra noi e la vita risorta di Cristo: diventare migliori per migliorare anche gli altri.